Come non si combattono i disturbi alimentari
I disturbi del comportamento alimentare, o DCA, sono uno dei temi che più da vicino tocca la nostra generazione. La conoscenza dei DCA infatti è maturata negli ultimi decenni, portando ad un aumento dell’attenzione al riguardo. La conseguenza è che ne sappiamo molto di più rispetto al passato, e possiamo quindi riconoscerli con i nostri occhi e sulla nostra pelle. Questi disturbi, in alcuni casi mortali, colpiscono in varie forme i soggetti più disparati: comunemente si pensa a bulimia e anoressia, ma nella categoria rientrano anche ad esempio la pica, il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating) e l’ortoressia. Sono prevalentemente i giovani e nello specifico le ragazze ad essere colpiti da questi disturbi: in Italia gli utenti delle strutture accreditate per i servizi sui disturbi alimentari sono al 90% donne e al 65% minori di 26 anni. Sono prevalentemente i giovani e nello specifico le ragazze ad essere colpiti da questi disturbi: in Italia gli utenti delle strutture accreditate per i servizi sui disturbi alimentari sono al 90% donne e al 65% minori di 26 anni. Ciò che spaventa è la portata del fenomeno ed il suo aumento durante la pandemia. Secondo varie stime tra il 2019 ed il 2021 l’aumento dei casi è stato del 40%, con un totale di 2.398.749 pazienti nel 2020. Ed i numeri sono sottostimati: molte persone non accedono alle cure e sfuggono al conto.
Il DDL del governo Meloni
Proprio per questo alla fine di marzo è stato presentato un disegno di legge d’iniziativa del senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni. “Attualmente nel nostro paese sono tre milioni i soggetti affetti da questi disturbi, circa il cinque per cento della popolazione italiana […] Ogni anno i disturbi alimentari provocano la morte di quattromila giovani, collocandosi come seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali.” Così si legge nella relazione di accompagnamento al DDL. Il testo è particolarmente simile ad un disegno presentato e non approvato nel 2018. È suddiviso in cinque articoli: il primo riconosce come malattie sociali i DCA, nello specifico l’anoressia nervosa, la bulimia, il disturbo da alimentazione incontrollata ed il disturbo evitante/restrittivo. Nel terzo articolo si riconosce il 15 marzo come “Giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare”. La data è attualmente nota come Giornata del fiocchetto lilla, ma non è ancora una ricorrenza istituzionale. Si prevede quindi di ufficializzarla e dedicarla ad eventi di sensibilizzazione. Il quarto articolo impone alle regioni di attivarsi per prevenire, individuare, curare e studiare i DCA, oltre che formare le scuole e le famiglie. Infine nel quinto articolo si dà al Ministro della salute il compito di presentare al parlamento una relazione annuale di aggiornamento sullo stato delle conoscenze e delle nuove acquisizioni scientifiche. Fin qui (saltando per ora il secondo articolo) sono buoni propositi.
I limiti del DDL
Si tratta però di parole vaghe: gli impegni concreti sono pochi, l’entità e l’impatto delle misure richieste dipende in larghissima parte dalla volontà di chi le metterà in pratica. È da ricordare che FDI durante la campagna elettorale ha parlato dei disturbi alimentari come di “devianze”, mettendole nel mucchio insieme ad obesità, dipendenze e microcriminalità. L’idea che si è letta tra le righe è la retorica dei giovani cresciuti senza educazione e buone abitudini, da correggere genericamente attraverso lo sport e migliori stili di vita. Ora che il governo è tornato a parlare di disturbi alimentari è lecito aspettarsi che l’approccio con cui vorrà intervenire è quello previsto per le “devianze”.
Ciò che fa strizzare gli occhi nel DDL è il secondo articolo. Eccolo integralmente: “Chiunque, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, determina o rafforza l’altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a provocare o a rafforzare i disturbi del comportamento alimentare, e ne agevola l’esecuzione, è punito con la reclusione fino a due anni e la sanzione amministrativa da euro 20.000 a euro 60.000. Se il reato di cui al primo comma è commesso nei confronti di una persona in difesa minorata, ovvero di una persona minore degli anni quattordici o di una persona priva delle capacità di intendere e volere, si applica la pena della reclusione fino a quattro anni e la sanzione amministrativa da euro 40.000 a 150.000 euro”. Si tratta dell’unico articolo del disegno che prevede misure concrete, però c’è da capire chi punta a colpire e che effetti avrebbe. Si parla di introdurre il reato di istigazione ai disturbi alimentari, aggiungendo l’articolo 580-bis al Codice penale (il 580 è quello sull’istigazione al suicidio). Il focus sembra rivolto in particolare ai siti, alle pagine e ai gruppi “pro-ana” e “pro-mia”, cioè dove si promuovono comportamenti alimentari tipici di anoressia e bulimia. Queste realtà si sono diffuse negli ultimi anni e si presentano in diversi modi. Possono essere ad esempio profili social con consigli riguardanti la dieta e la forma fisica, che però inconsapevolmente consigliano delle abitudini alimentari per nulla sane ed un rapporto sbagliato con il cibo; oppure gruppi telegram e whatsapp dove collettivamente ci si impegna a seguire certe regole per dimagrire, quasi come una terapia di gruppo, condividendo le calorie assunte ed il proprio peso, complimentandosi con chi raggiunge determinati obiettivi e addirittura punendo con il digiuno chi sgarra alle regole o supera i limiti. La caratteristica comune agli ambienti pro-ana è il senso di comunità che creano e l’esempio che danno, aumentando la determinazione a seguire le regole e le abitudini del gruppo. Infatti i membri sono quasi sempre adolescenti e pre-adolescenti, in un età in cui il senso di appartenenza, le dinamiche di gruppo e gli esempi che si osservano costituiscono un elemento fondamentale per scegliere i propri modelli e riferimenti. Le stesse dinamiche si ripetono anche al di fuori di internet, tra gruppi di amici (spesso amiche), squadre sportive, in famiglia… E non solo in modo così drastico: basta abituarsi a vedere le proprie amiche saltare il pranzo per dimagrire o prestare eccessiva attenzione alla forma fisica, per iniziare a fare lo stesso.
Cosa vuol dire istigazione ai disturbi alimentari?
Quindi, si può parlare di “istigazione ai disturbi alimentari” in questi casi? Secondo il disegno sì, ma la situazione è più delicata. Il parallelismo tra queste situazioni ed i casi di istigazione al suicidio e bullismo che si intende dal DDL semplicemente non regge: per i disturbi alimentari non si può fare una linea tra chi subisce e chi istiga, tra la vittima e il colpevole. Sono le stesse persone affette da DCA che spesso non hanno piena consapevolezza della loro condizione e che quindi diffondono le loro abitudini, che sia di persona o sui social, agendo da “istigatori” ma essendo al pari delle vittime. Si può pensare di voler punire queste persone? Di costringerle al carcere e a multe da decine di migliaia di euro? E soprattutto, servirebbe a qualcosa? Le persone colpite da questo reato sarebbero in larghissima parte le stesse che si cerca di proteggere e curare, l’approccio risulta paradossale. Non solo: l’unica azione concreta e ben definita prevista nel testo manca totalmente di considerazione ed empatia verso chi invece ne soffre. Punire chi è colpevole emerge come priorità invece che aiutare e sensibilizzare chi ne ha bisogno. Anche la prevenzione, indispensabile, viene tralasciata. Una delle cause di questa miopia è l’attenzione minima che si presta in Italia alla salute mentale, soprattutto a quella dei più giovani. È vero, a volte invece sono gli adulti di riferimento come insegnanti, genitori e allenatori sportivi a fare commenti o a pretendere una certa forma fisica, alimentando insicurezze e portando allo sviluppo di disturbi alimentari. Ma anche qui, è meglio multarli o istruirli e sensibilizzarli? Per prevenire e curare i disturbi alimentari gli ingredienti sono gli stessi che servirebbero per una società che ha a cuore la salute mentale. Si tratta di avere sportelli d’ascolto realmente disponibili in ogni scuola e università, di sensibilizzare i giovani, le famiglie e gli insegnanti per riconoscere i disturbi e per comportarsi correttamente, senza alimentarli e aiutando chi ne soffre. Ma forse non basta, forse serve di più: un impegno continuo per abolire lo stigma ed il tabù della salute mentale, e uno psicologo di base a cui rivolgersi periodicamente al pari del medico.
Resta da ricordare, come piccola nota positiva, che si tratta solo di un disegno di legge non ancora discusso. Seppure penalizzare e introdurre reati per qualunque cosa sembra essere l’approccio del governo, la probabilità che il testo diventi legge è molto bassa, e ancora di più la possibilità che lo diventi senza modifiche.