Articolo a cura di Irene Mutinati e Martina Cianni
Fratelli d’Italia ha presentato una proposta di legge firmata da Fabio Rampelli a tutela della lingua italiana. Sono previsti provvedimenti per cui, tra le altre cose, qualsiasi comunicazione pubblica dovrebbe essere trasmessa in italiani, i corsi in lingua straniera all’università o a scuola sarebbero tollerati solo in presenza di studenti stranieri. La violazione di questi obblighi implicherebbe una sanzione che oscilla tra i cinque mila e i cento mila euro.
Non è la prima volta che in Italia si dibatte sull’uso del linguaggio a favore di cambiamenti più o meno importanti, come il genere femminile nelle cariche pubbliche e l’utilizzo della schwa per un lingueggio inclusivo, ma secondo quale criterio si può pensare di manipolare la lingua? E perché a volte sentiamo il bisogno di manipolarla?
Lingua come fatto sociale
Il linguista Antoine Meillet osserva che la lingua è innanzitutto un fatto sociale, proprio perché la prima condizione del linguaggio è l’esistenza delle società umane. Si può pensare alla lingua come ad uno specchio in cui la nostra società può riflettersi. Infatti, i limiti dei vari linguaggi tendono a coincidere con quelli dei gruppi sociali (ossia le nazioni) di appartenenza, per fare un esempio, l’assenza di unità linguistica è segno di uno stato recente, come in Belgio. In più, le lingue hanno le parole di cui i loro parlanti hanno bisogno per esprimere la loro cultura. Man mano che la loro cultura cambia anche il vocabolario della lingua.
“L’unico elemento variabile a cui si può ricorrere per dare conto del mutamento linguistico è il mutamento sociale, di cui le variazioni di linguaggio sono solo le conseguenze a volte immediate e dirette, e più spesso mediate e indirette.”
-Antoine Meillet, in “Linguistique historique et Linguistique générale”
Dunque, se la società guida la lingua, la lingua non guida però la società. La società agisce sulla lingua principalmente nel momento in cui ha bisogno di esprimere dei bisogni di una classe sociale o di un’epoca.
Infatti, i rapporti tra l’inglese e l’italiano derivano proprio da questo: una necessità. Essi si intensificarono tra il 1200 e il 1300, quando i mercanti italiani hanno iniziato a commerciare con quelli inglesi, e pertanto hanno iniziato a parlare la loro stessa lingua. Ad oggi, molti studiosi si sono interrogati sul perché così tanti anglicismi siano entrati a far parte in maniera così elevata del nostro quotidiano, e le risposte sono molteplici. L’uso preferenziale dell’inglese sarebbe legato alla percezione che il lettore ne ha come lingua più pragmatica e plastica, la semplicità dell’inglese a livello sintattico è infatti alla base dello stile giornalistico moderno, fatto di locuzioni brevi e coincise. Dunque anche in questo caso, i prestiti provengono da delle necessità linguistiche e non.
Linguaggio e propaganda
Franz Boas, considerato uno dei padri dell’antropologia moderna arrivò alla conclusione che non si può avere accesso totale ad una cultura al fine di studiarla se non se ne conosce almeno quasi perfettamente la lingua. Se è vero che la lingua si plasma sulla società, ne rappresenta bisogni e necessità, la lingua influenza in modo determinante ciò che il parlante sceglierà per esprimere una data idea. Questo, a sua volta, influenzerà anche il suo modo di percepire il mondo circostante.
Essendo uno strumento per influenzare le masse, la lingua diviene così un mezzo che si trasforma in possibilità di potere e di controllo. Una delle grandi forze ideologiche di ogni regime dittatoriale è proprio la lingua: le parole vengono scelte con grande accuratezza, nulla era mai casuale. Per esempio, durante la dittatura di Stalin, nel vocabolario sovietico comunista, non esistevano più i connazionali, i cittadini, gli amici o i vicini, tutti erano compagni e compagne, uniti nel mito della rivoluzione proletaria che avrebbe creato il “paese più felice del mondo” a detta di uno dei più sanguinari dittatori mai esistiti.
Questo discorso regge anche in contesti non estremisti come quello del dispotismo, e vale nella politica di tutti i giorni. Difatti, la lingua diventa funzionale a veicolare tutta una serie di messaggi di natura politica. Pensiamo alla battaglia di matrice progressista (patrocinata anche dai social media) sulla possibilità di un linguaggio inclusivo, realizzabile attraverso l’utilizzo del femminile delle professioni (esempio: avvocata invece di avvocato) o attraverso la ə (schwa).
La battaglia agli anglicismi per favorire l’utilizzo della lingua nazionale è una battaglia che invece potremmo definire conservatrice, volta a proteggere la tradizione, che anche in questo caso ritroviamo in un’altra grande dittatura della storia.

Il fascismo e l’italianizzazione forzata: “Basta scimmiottature delle usanze straniere”
Durante il ventennio fascista, la lingua italiana fu uno dei tanti strumenti di propaganda e controllo al servizio del regime. Tutto ebbe inizio nel 1923, con l’inaugurazione di una politica di italianizzazione forzata delle comunità slovene e croate presenti a Gorizia, Trieste, Pola e Zara, città annesse al Regno d’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale. Attraverso una serie di provvedimenti aventi forza di legge, il partito di Mussolini vietò l’insegnamento di lingue straniere nelle scuole, soppresse organi di stampa e case editrici non conformi alla nuova linea di pensiero e cambiò arbitrariamente la toponomastica dei comuni di Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte e Valle d’Aosta. Fu così, ad esempio, che “Innichen” divenne “San Candido” e “La Thuile” si trasformò in “Porta Littoria”. Tra il 1925 e il 1927, entrarono poi in vigore norme ancora più severe e pervasive: il divieto di parlare lingue diverse dall’italiano in luoghi pubblici e l’italianizzazione di molti cognomi di origine straniera, spesso senza il consenso dei diretti interessati.
In poco tempo, questa politica si estese al resto del paese e rimase in vigore fino alla caduta del fascismo. L’obiettivo era fare della lingua un mezzo per la creazione di un’identità italiana forte e “pura”, in grado di eliminare ogni tipo di divisione interna e rafforzare il consenso e l’autorità del regime. Nel 1938, sulle pagine de “Il Popolo d’Italia”, quotidiano fondato da Mussolini nel 1914, si leggeva: “Basta con gli usi e costumi dell’Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d’America (…)”.
Grazie al sostegno di intellettuali di spicco dell’epoca, come Gabriele D’Annunzio e Giovanni Gentile, alla censura e allo stretto controllo di tutti i mezzi di comunicazione esistenti, ben presto vocaboli appartenenti a lingue straniere vennero rimpiazzati da termini più italiani, ma non per questo più autorevoli. Basti pensare allo “champagne” diventato “sciampagna”, al “cocktail” trasformato in “bevanda arlecchina” o al “dessert” sostituito con “fin di pasto”. Alcune parole coniate o rese famose in quest’epoca restano tutt’ora in uso. Tra queste ci sono, ad esempio, “tramezzino” e “cornetto”, termini introdotti per sostituire “sandwich” e “croissant”. L’autarchia linguistica, tanto voluta e ostentata dal partito fascista, ebbe però vita breve dopo la caduta del regime e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Tentare di imbrigliare con leggi arbitrarie una lingua viva e in perenne evoluzione sembra essere uno sforzo dispendioso e destinato al fallimento.
Una proposta di legge contro i “forestierismi ossessivi”
La protezione e l’esaltazione, a volte anche esasperata, dell’identità culturale nazionale non è certo una novità per la destra italiana. Una nuova proposta di legge firmata da ventidue deputati di FdI ha però scatenato non poche polemiche. Il ddl, strutturato in otto articoli, introduce alcune norme per la “tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana” e anche la creazione di un Comitato dedicato. Il testo, presentato il 23 dicembre 2022, prevede anche sanzioni da 5.000 a 100.000 euro per tutti coloro che non utilizzeranno la lingua italiana “nella fruizione di beni e di servizi, nell’informazione e nella comunicazione, nelle attività scolastiche e universitarie, nonché nei rapporti di lavoro e nelle strutture organizzative degli enti pubblici e privati”. L’obiettivo dichiarato è proteggere la lingua italiana ed evitarne la scomparsa a causa del dilagare di “forestierismi ossessivi”, “in un’ottica di salvaguardia nazionale e di difesa identitaria”. Il documento cita anche alcune stime secondo cui, dal 2000 ad oggi, il numero di parole inglesi entrate nella lingua italiana scritta sarebbe cresciuto del 773%. Gli anglicismi presenti nel dizionario Treccani sarebbero 9.000 su un totale di circa 800.000 parole italiane. Il modello a cui sembra ispirarsi FdI è la Francia, dove nel 1994 la legge Toubon ha reso obbligatorio l’utilizzo della lingua francese nelle pubblicazioni governative, nelle pubblicità, sul posto di lavoro, nei contratti e nelle contrattazioni commerciali e nelle scuole pubbliche, ma non nelle comunicazioni private e non commerciali.
È Inutile dire che le reazioni alla proposta di legge presentata da FdI sono state numerose e di diversa natura. Il professore Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, ha preso posizione spiegando: “L’eccesso sanzionatorio esibito nella proposta di legge rischia di gettare nel ridicolo tutto il fronte degli amanti dell’italiano (…), più che le multe, servirebbe innanzitutto usare buon senso, e applicare le norme che già ci sono”. Sui social si ironizza provando a tradurre in italiano nomi di brand, prodotti, personaggi famosi e altro ancora. È così che su Twitter la Nutella diventa “Nocella” e su TikTok la Generazione Z prova ad immaginare come sarebbe una conversazione tra amici senza poter utilizzare parole come “cocktail”, “top”, “Whatsapp”, “ghosting”, “shopping” o “mood”. C’è poi chi evidenzia una certa ipocrisia del Governo, che prima di proporre questa nuova legge a tutela della lingua italiana, ha ribattezzato il Ministero dello Sviluppo Economico “Ministero del Made in Italy” e ha fatto della “Flat Tax” uno dei suoi cavalli di battaglia in campagna elettorale. La stessa Giorgia Meloni, attuale Presidente del Consiglio e leader di FdI, nel suo primo discorso alla Camera si è definita “underdog” e ha recentemente proposto la creazione di un “liceo del made in Italy”.
Ma qual è la reale conoscenza dell’inglese da parte degli italiani? Secondo l’ultimo report dell’EF EPI (English Proficiency Index), l’Italia si trova al 32° posto della classifica mondiale relativa alla padronanza della lingua ed è alla 20ª posizione nell’UE, davanti a Spagna e Francia. Sul podio europeo ci sono invece Paesi Bassi, Austria e Danimarca. Le note positive sono due: i dati italiani sono in miglioramento rispetto agli anni precedenti e non sembra esistere un consistente gender gap quando si parla di padronanza dell’inglese.
Una legge è veramente la soluzione? Forse no: ecco perchè
È proprio in virtù di questo rapporto tra società e lingua, che implica la possibilità di influenzarsi vicendevolmente, e quindi di non sottostare a regole troppo rigide, che cercare di eliminare forzatamente i forestierismi dall’italiano apparirebbe come una misura inefficace ed estrema (anche alla luce dell’esperienza fascista). Se l’obiettivo è veramente quello di tutelare e valorizzare il patrimonio lessicale nazionale, esistono altre strade da poter percorrere. Ad esempio, creare nuove opportunità di condivisione che non vadano ad imporre divieti, ma anzi, a favorire l’incontro tra culture e idiomi diversi. Il contatto e lo scambio con l’altro è la base dello sviluppo economico e sociale, della comprensione, dell’apprendimento e di una convivenza pacifica. Ormai da secoli, la circolazione di prodotti culturali provenienti da paesi anche molto diversi tra loro ha contribuito a far capire e apprezzare culture e lingue di tutto il mondo. Censura e controllo non sono la soluzione: è necessario aprirsi al mondo esterno e al nuovo, alla commistione dei linguaggi e delle società senza paura, ma ricordando e custodendo sempre le proprie origini.