1. l’imponenza del latino
La storia del nostro Paese è ricca di personaggi valorosi, avvenimenti storici e lingue. Nel corso dei millenni, nel territorio che poi sarebbe diventato il Regno d’Italia, si sono avvicendati popoli e idiomi anche estremamente diversi tra loro, e ognuno di essi ha lasciato orme difficili da cancellare.
Se si parla di sistemi linguistici che hanno attraversato la penisola, si potrebbero fare esempi con un peso specifico enorme, come il germanico parlato da molti popoli tra cui i Longobardi. Il lascito della dominazione longobarda si ritrova in alcune parole del lessico italiano indicanti le parti del corpo come schiena, milza, anca, guancia anche se qualche secolo dopo l’inizio della denominazione, gli stessi longobardi hanno preferito imparare il latino per via della sua prestigiosità.
Questo esempio, denota come, tra tutte le lingue che hanno fatto parte della storia d’Italia, quella latina è senz’altro la più importante: prima come lingua dell’Impero Romano, poi come base linguistica per il portoghese, lo spagnolo, il francese, l’italiano e il romeno.
2. cos’è il dialetto?
Le lingue europee appena citate vengono annoverate nel raggruppamento delle lingue neolatine, sorte ovviamente dalla dominazione romana avvenuta circa due millenni fa. In questo lasso di tempo, il latino ha avuto contatti con altre lingue parlate in quei territori, “sporcandosi” e quindi trasformandosi. Proprio come nel caso del germanico portato dai longobardi in Italia.
La differenziazione del latino si lega perciò a un fattore geografico: in base al popolo preromano che occupava una data area, la lingua latina subiva delle modifiche. Col passare del tempo, lo scarto dalla norma è diventato esso stesso “norma”, portando la lingua latina ad una pluralità di varietà, simili tra loro ma diverse sotto alcuni aspetti. Qui risiede la definizione di dialetto:
«Un dialetto è una varietà di lingua non standardizzata, tendenzialmente ristretta all’uso orale entro una comunità locale, ed esclusa da usi formali e istituzionali».
I dialetti quindi sono lingue a tutti gli effetti, e, visto lo stretto legame di parentela tra il latino ed essi, si può affermare che i dialetti sorti in Italia e l’italiano sono lingue sorelle. Invece , tra le caratteristiche principali che separano i due sistemi linguistici si denota la prestigiosità della lingua nazionale anche al di fuori della nazione, e la scarsa produzione scritta da parte dei dialetti.
3. sardo algherese e romanesco: lingue con una storia turbolenta
Lo sviluppo morfologico e lessicale dei dialetti nazionali è sempre stato molto condizionato dai fattori sociali che si presentavano nelle varie aree di appartenenza. Tra i molti casi in cui vi è stato uno scontro tra culture diverse, ho deciso di trattare l’algherese in Sardegna e il romanesco:
- Ad Alghero, nel nord-ovest della Sardegna, si parla un dialetto che pone le sue radici nel catalano. La storia di quest’isola linguistica nasce in epoca tardo medievale, quando Alghero e altre zone del nord della Sardegna furono conquistate dagli aragonesi, popolazione originaria della Catalogna. Dopo la conquista, gli aragonesi cacciarono le popolazioni autoctone sostituendole con abitanti provenienti dal Regno d’Aragona. Tale spostamento di masse provocò una sovrapposizione tra la lingua degli indigeni e quella dei conquistatori, che riuscirono successivamente a imporre l’uso del proprio idioma anche ai popoli sottomessi. Dopo alcuni secoli, Alghero, così come il resto della Sardegna, passò prima nelle mani dei castigliani, poi divenne parte del Regno di Savoia, ma nonostante ciò non abbandonò la lingua venuta da ponente. Purtroppo però, in epoca moderna, il catalano algherese comincia a far perdere le proprie tracce: nel 2012 l’UNESCO ha stabilito che solo il 20% della popolazione algherese parla il catalano, dato che scende al 12% se si considerano i parlanti giovani (under 21), rendendo il catalano algherese una lingua a rischio di estinzione.
- Sebbene venga considerata una delle parlate più melodiche e dolci da ascoltare, il romanesco non è propriamente un dialetto, bensì un’estensione linguistica del toscano. Per essere ancora più precisi, occorre affermare che esisteva un romanesco antico, anche detto di fase 1, e un romanesco di fase 2, divenuto poi quello attuale. Lo spartiacque tra le due fasi è il Sacco di Roma del 1527, evento in cui i feroci Lanzichenecchi, soldati mercenari, misero a ferro e fuoco la città dimezzando quasi la popolazione.Lo shock demografico scaturito dal Sacco (da 54 mila a 33 mila abitanti circa), venne colmato con un repentino aumento della popolazione, che toccò le 100 mila unità al tramonto del XVI secolo. La maggior parte dei cittadini che ripopolarono Roma però, proveniva dalla Toscana, regione che in quel periodo storico aveva forti legami con il papato e più in generale con le istituzioni cittadine. È qui che cominciò il declino del romanesco di fase 1.La città, poco dopo aver subito migliaia di perdite, divenne meta di mercanti, uomini di chiesa e gente comune, ognuna portatrice di una propria cultura, e una propria lingua. La popolazione autoctona si mischiò, col passare degli anni, con quella stabilitasi dopo il Sacco, provocando pesanti cambiamenti nel romanesco antico, che somigliava al napoletano, e arrivando, col passare dei secoli, alla varietà linguistica conosciuta in tutta Italia.
4. La necessità di una lingua univoca
L’italiano è una lingua tutto sommato giovane. Al momento dell’Unità d’Italia il tasso di alfabetizzazione oscillava tra 10-15%; questa grave situazione socio-culturale veniva ampliata dalla mancanza di una lingua nazionale: ogni zona del nuovo Stato aveva una propria lingua, dialetti ben strutturati usati in ogni tipo di contesto comunicativo, ma che rendevano impossibile la coesione del popolo.
Dopo alcuni anni di assestamento per il neonato Regno d’Italia, nel febbraio del 1868 Alessandro Manzoni scrisse e inviò una relazione al ministro dell’istruzione Emilio Broglio dal titolo inequivocabile “Dell’unita della lingua e dei mezzi di diffonderla”. Lo studio dello scrittore milanese si concentrava principalmente su due punti:
- l’imposizione del modello linguistico fiorentino, da introdurre già nella scolarizzazione primaria;
- l’eliminazione dei dialetti.
Proprio riguardo ai dialetti, Manzoni sosteneva:
«Una nazione dove siano in vigore vari idiomi, e la quale aspiri ad avere una lingua in comune, trova naturalmente in questa varietà un primo e potente ostacolo al suo intento. In astratto, il modo di superare un tale ostacolo è ovvio ed evidente: sostituire a quei diversi mezzi di comunicazione d’idee un mezzo unico. […] È necessaria una lingua atta a combatterli, col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano».
e ancora:
«[…] Ché i dialetti (ai quali nessuno più di noi desidera che si faccia guerra a morte) sono però cose in sé buone assai, cose eccellenti: hanno tutti di necessità ciò che ci vuole a produrre l’effetto che realmente producono, cioè una continua e piena e regolata conversazione umana».
Dall’opera si deduce che Manzoni, seppur contrario alla loro proliferazione, nutriva nei dialetti un profondo rispetto, probabilmente perché sapeva quanto poteva essere complicato rinnegare la propria lingua e impararne un’altra di punto in bianco.
5. La regressione forzata dei dialetti
La linea manzoniana venne seguita in parte: plasmare la nuova lingua sul sistema linguistico fiorentino era molto complicato per via di alcune particolarità strutturali del fiorentino stesso, che non avrebbero mai attecchito sulle abitudini linguistiche di tutti gli italiani. Tuttavia, venne seguita la pars destruens, ossia l’idea di distruggere definitivamente l’uso dei dialetti.
Per far sì che ciò accadesse, era necessaria una mobilitazione generale delle istituzioni, prima su tutte, la scuola. Dai primi anni dell’Unità, sino alla metà inoltrata del secolo scorso, il sistema scolastico ha inculcato nelle classi popolari la vergogna sociale nei confronti di quella che per secoli era stata per esse la prima e unica lingua: il dialetto, bollato come strumento linguistico socialmente e culturalmente impresentabile.
L’idea che i dialetti siano uno “strumento linguistico impresentabile” è arrivata fino a noi; non è raro infatti che se si ascolta qualcuno parlare dialetto si pensa, anche involontariamente, che quell’individuo provenga da una classe sociale bassa. Questa sensazione vive in ogni parlante italofono poiché, sin da bambini, siamo stati tempestati di messaggi negativi circa i dialetti.
Per fare un esempio, nel 2011, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la Rai ha mandato in onda alcuni spot pubblicitari tesi ad esaltare il contributo fornito dalla TV di Stato all’unificazione linguistica nazionale, ottenuta grazie allo sradicamento dei dialetti (https://www.youtube.com/watch?v=cJKj2EKGc4Q).
Nel 2015 l’Istat ha pubblicato uno studio in cui emergevano alcuni dati esplicativi circa la situazione dialettale italiana:
- Il 45.9% della popolazione italiana (dai 6 anni in su) si esprime solo in italiano in contesti familiari; il 32.2% utilizza sia l’italiano che il dialetto; il 14.1% solo il dialetto, mentre il 6.9% restante utilizza un’altra lingua al di fuori del sistema linguistico italoromanzo;
- Per tutte le fasce di età diminuisce l’uso esclusivo del dialetto, anche tra i più anziani, tra i quali rimane comunque una consuetudine molto diffusa: nel 2015 il 32% degli over 75 parla in modo esclusivo o prevalente il dialetto in famiglia (erano il 37,1% nel 2006).
In conclusione si può ormai affermare che i dialetti siano in netta regressione rispetto all’italiano. Questa è senz’altro un’ottima notizia dal punto di vista sociale poiché alla base del buon funzionamento di uno Stato vi è la presenza di una lingua ben definita, comprensibile a tutta la comunità.
D’altro canto però, l’eventuale scomparsa dei dialetti porrebbe fine a uno dei più grandi lasciti culturali dei nostri avi: Totò, Trilussa, Gioachino Belli, sono solo alcuni tra i grandi della letteratura a scrivere le proprie opere in dialetto. Il dialetto è parte costituente della storia d’Italia, ma chissà se sarà sempre così.