Nel corso della storia, le donne sono sempre state concepite come emblemi di sensualità e bellezza, catalizzatrici di eros e muse ispiratrici. Non dei, ma dee della bellezza: partendo da Afrodite, Hebe, passando per Inanna e Istar, divinità mesopotamiche, e Athor ed Era, divinità una egizia e una greca, simboli di bellezza ma, allo stesso tempo, consorti di divinità maschili. La stessa Atena, che apparentemente rompe gli schemi, è nata dalla testa di Zeus. La dea inoltre secondo il mito rimane vergine, quasi come se femminilità e forza non potessero coesistere. Hannah Cowley, poeta e romanziera britannica, definiva la donna come “un abbaglio della natura”.
Se l’arte è sostanzialmente ricerca del bello, e il bello sembra per natura una prerogativa dell’universo femminile, allora la donna è l’essenza stessa dell’arte.
In una società contemporanea dove il pluralismo regna e i costumi sociali si evolvono alla velocità della luce ci chiediamo quanto nel corso della storia, i canoni estetici relativi alla bellezza femminile siano cambiati. Occorre partire da una considerazione: l’estetica non è una scienza esatta. Illudersi che esista un concetto universalmente valido di “bello” è un’opinione nebulosa che rischia di farci sprofondare in un reticolo contorto di contraddizioni. Eppure ogni popolo e società arbitrariamente si prefissa un “modello” di gradevolezza estetica a cui si ritiene vitale aspirare.
Chi decide cos’è bello? In sostanza, nel momento una fonte autorevole stabilisce cos’è bello, tutti siamo portati a scomporre la realtà secondo criteri di conformità \difformità rispetto ai canoni vigenti.
Ma perché, ad oggi, proprio le donne sembrano essere le principali vittime di questa “lotta alla sopravvivenza estetica”, nella concezione di dover uniformare la propria fisicità ad uno spietato ed imparziale giudice sociale incorporato in ciascuno di noi? Questo perché la donna, nel patrimonio culturale comune, è sempre stata esaltata per il suo corpo e le sue doti estetiche. Dunque, capire come si evolve la bellezza nell’arte, che è da sempre specchio della vita, non solo ci porterà ad un percorso interessante in tema di emancipazione e valorizzazione femminile, ma ci porta anche a mettere in dubbio il carattere di accettabilità di certi topoi estetici moderni.
I greci sono stati i principali teorici del bello: secondo Aristotele, la fonte del bello è nel senso innato dell’armonia. Infatti, in età classica tutta l‘arte greca si basava essenzialmente sui concetti di simmetria, perfezione ed equilibrio. Nella scultura greca, il nudo femminile irrompe svariati anni più tardi rispetto al nudo maschile, quando l’età aurea volge al tramonto.
Il primo nudo femminile dell’arte greca è l’Afrodite cnidia, una scultura marmorea di Prassitele, databile al 360 a.C, che ci restituisce una dea che si identifica pienamente nella sua natura di donna, colta nella sua nudità mentre si appresta a fare un bagno rituale. Qui siamo nel cuore dell’arte ellenistica, non più forme perfette e stilizzate, ma realistiche e vitali. Questo lo dimostrano i muscoli marcati e le sinuosità del ventre, delle gambe e del petto. Anche nella Vecchia ubriaca, scultura in marmo di Mirone di Tebe, il gusto per il realismo ha definitivamente soppiantato la ricerca del bello e dell’armonia: qui troviamo non più sinuosità e sensualità , ma una donna anziana dal volto rugoso e disperato, con lo sguardo perso e la bocca spalancata.

Sempre dall’età antica troviamo le rappresentazioni della dea Inanna, la divinità sumera della fertilità , (poi identificata con Ishtar, divinità babilonese e assira), con dei fianchi e dei seni dalla accentuata prosperosità . A tratti ricorda una versione meno rudimentale delle statuette femminili preistoriche, come la Venere di Willendorf, risalenti principalmente al paleolitico, che presentano i tipici elementi anatomici femminili (vulva e seni) particolarmente gonfi.
Per i Romani, popolo dai costumi e tradizioni meno libertini, il light motiv era pur sempre la celebrazione della gloria e dei valori romani. In età augustea, il corpo ideale di donna era costituto da seni piccoli e fianchi larghi. Soltanto le donne più agiate e vicine all’imperatore, in particolare le matronae della dinastia giulio-claudia, avevano il privilegio di essere ritratte. Si trattava di donne aventi un forte ruolo socio-politico, in quanto nelle loro mani era la sopravvivenza stessa della gens imperiale, rappresentate spesso in età avanzata, in pose domestiche e con sguardo severo ed austero.
Ma un po’ di spazio per la sensualità si riscopre nella Venere Callipigia, una scultura marmorea di età romana, risalente al I-II secolo a.C, che strizza l’occhio alla sensualità classico-ellenistica della cultura greca. L’atto di “scoprire le natiche” (detto anasyrma) non ha però necessariamente una valenza erotica. Nella cultura antica, infatti, veniva spesso praticato durante riti religiosi (specialmente nei confronti di Dionisio e Demetra), e aveva perfino un valore apotropaico.
Il Medioevo, caratterizzato dall’imperversare del teocentrismo, non lascia spazio ad un piacere che non sia quello della fede. La donna diventa così icona di castità e purezza. Questo cambiamento dal punto di vista artistico si traduce nella copiosa produzione pittorica della Vergine Maria, figura sacra e solenne e tutt’altro che seduttiva.

Nella letteratura, la celebrazione della bellezza e dell’amore non sono mai fini a sè stesse, ma legate alla spiritualità e l’elevazione dello spirito. La donna, intesa come figura reale, diventa una figura ideale e stilizzata, dalle virtù miracolose e di indescrivibile perfezione. Le sue caratteristiche estetiche, quindi, sono quelle dalle creature angeliche: capelli biondi, occhi chiari, carnagione candida. Pensiamo alla Beatrice dantesca, che alla fine della Commedia, diventa a tutti gli effetti uno spirito celeste, simbolo della teologia. Così, la sensualità femminile finisce per essere snaturata e inibita. Nella moda medievale, infatti, che le donne si coprissero come un velo, in quanto (la Maddalena docet) erano considerati una delle principali armi di seduzione.
Nel Rinascimento i dogmi della cristianità cominciano a vacillare, l’uomo si riappropria della sua dignità e riscopre l’edonismo. Le ars amandi raffiorano e nascono nuovi prototipi femminili: da un lato la dama di corte, raffinata, colta, seducente e arguta, dall’altro la cortigiana, risultato della definitiva affermazione della prostituzione come attività sdoganata, che conduce un’esistenza più libera e sregolata e spesso rappresenta un modello di donna estremamente all’avanguardia (vedi Veronica Franco, nota cortigiana e poetessa veneziana).

Nelle arti figurative, ritorna il gusto per l’antico, per gli stilemi e l’armonia classica. La massima celebrazione della bellezza universale femminile non può che essere rappresentata dalla celeberrima Venere di Botticelli, dove il motivo classico della nudità della Venere si mescola con un’ambientazione mitica e significati allegorici e filosofici. La dea, approdata nell’isola di Cipro subito dopo la nascita, avanza sulle acque sorretta da una grande conchiglia come fosse una perla. Venere appare come una statua antica: la postura sculturea ricorda la Venus pudica, e la disposizione delle figure, ricorda l’inscenamento del battesimo cristiano. Il corpo presenta forme sviluppate: seno formoso, fianchi larghi e addome arrotondato.
La Venere, così come altri soggetti femminili nella produzione artistica di Botticelli (e non solo) non a caso è ispirata a Simonetta Cattaneo. Quest’ultima è assimilabile ad una vera e propria “top model” del Rinascimento. Simonetta incarna i canoni estetici delle nobildonne dell’epoca: fronte alta, sopracciglia lunghe e sottili, capelli lunghi e biondi, spesso intrecciati in sontuose acconciature, carnagione chiara.
Rispetto alla voluttuosa venere botticelliana, nella Venere in un paesaggio (1529) di Lucas Cranach, noto pittore tedesco, la protagonista femminile del dipinto incarna un tipico modello di bellezza di stampo nordico. La Venere di Cranach ha i fianchi stretti, i seni poco prominenti e piccoli, la fronte ampia e luminosa.
Il processo di umanizzazione della Venere culmina con la Venere di Urbino, dipinto di Tiziano, noto pittore veneziano. Il dipinto è un’icona di sensualità e seduzione, originariamente definita dall’autore come “una donna languida”. Esso riflette il gusto profano rinascimentale: la donna, consapevole della sua nudità , ne è quasi orgogliosa. Il dipinto simboleggia l’importanza dell’aspetto erotico nell’ambito del rapporto coniugale. Se osserviamo bene, ai simboli tipici della dea dell’amore (rosa e mirto) si aggiunge il cane, simbolo della fedeltà .
Il Seicento rifiuta i modelli ideali di un’arte preconfezionata, alla ricerca di un ideale mistificato di perfezione. La realtà si erge nella sua complessità e varietà , e la tradizionale atemporalità ed astrattezza cede il posto ad una maggiore concretezza. Le donne rappresentate appartengono a tutte le classi sociali, e vengono ritratte nelle attività più disparate e svanisce il concetto di “bello ideale”. Dal punto di vista della selezione dei soggetti e delle ambientazioni, la pittura di Vermeer introduce come figure centrali della ritrattistica femminile seicentesca donne di umile estrazione, come domestiche, merlettaie, suonatrici.
Dal punto di vista della rappresentazione della bellezza femminile una stoccata violenta è palpabile nella pittura di Rubens, che apre la via al tumultuoso barocco europeo. Nelle Tre Grazie (1638), i tre soggetti femminili sarebbero facilmente accostabili a donne comuni. I corpi sono formosi, sono evidenziate le rughe o le pieghe della pelle, la muscolatura è forte ed il seno piccolo. Rubens dipinge donne autentiche, che riempiono la tela con la maestosità delle loro forme piene ed opulente.
Il Neoclassicismo volse lo sguardo con nostalgia verso le delicate forme della classicità antica, senza però del tutto smarrire le lezioni delle epoche più recenti. In questo filone spicca tra le icone femminili la Paolina Borghese (ritratto della principessa italiana Paolina Bonaparte, sorella minore di Napoleone) di Canova, rappresentata come la Venere vincitrice. Canova intendeva sì puntare all’aspetto divino e idealizzato della dea, ma anche far emergere la donna in tutta la sua femminilità e carnalità . L’addome è rilassato e la realisticità del corpo è sottolineata dalle pieghe della pelle in prossimità del fianco destro. La sensualità del corpo è accentuata in un gioco di “vedo non vedo” dato dal contrasto tra il seno scoperto e la restante metà del corpo coperta da morbidi panneggi.

Ma all’entusiasmo neoclassico si sostituisce un nuovo anelito di rappresentare la realtà con immediatezza e verità , ed in particolare nelle sue sfumature più sconosciute e impopolari.
Edouard Manet, prima con la Colazione sull’erba e in particolare con l’Olympia, irrompe con inimitabile audacia verso il pubblico del suo tempo, scegliendo come soggetti dei suoi dipinti delle prostitute. L’accusa di oscenità derivò principalmente dal fatto che per la prima volta la nudità femminile non era giustificata da alcun pretesto storico, mitologico o letterario. Il soggetto non era nè una ninfa, nè una dea, nè tantomeno un’allegoria. Manet si riferiva all’Olympia come ad un’interpretazione moderna della Venere di Tiziano, che si poneva, rispetto ad essa, in chiave volutamente antitetica e provocatoria. Quest’ultima, infatti, simboleggiava la fedeltà coniugale e l’importanza della sessualità nel matrimonio. L’opera di Manet rappresenta invece la volontà di smascherare il perbenismo dei contemporanei rispetto ad una professione che, nella Parigi del tempo, era altamente praticata e fruita.

L’anticonformismo e l’audace dell’artista è sintomo di una graduale affermazione della figura dell’artista nella società contemporanea, più avvezzo alla sperimentazione. La pittura contemporanea ci offre infatti una sfilza di figure femminili che si adattano ai contesti e ai significati più diversi. Nelle madeimoselle d’Avignon di Picasso, il nudo femminile torna preponderante, ma in chiave del tutto innovativa, simbolo della rivoluzione prospettica del Cubismo. Il corpo delle fanciulle appare squadrato e in certi punti geometrico, e due di loro hanno il volto deformato, per ricordare le sculture africane.
Spostandoci alla pttiura Gauguin ci mostra un prototipo di bellezza femminile totalmente estraneo alla tradizione occidentale: si tratta delle donne di Tahiti, nella Polinesia francese, un luogo incontaminato ed esotico. Qui il pittore, desideroso di ritirarsi dalla Parigi mondana, intrattiene una relazione con  Teha’amana, una giovane ragazza dalla “bellezza animale” e dagli occhi teneri e ingenui. Nello spirito dei morti veglia, proprio Teha’amana viene raffigurata distesa prona su un letto disfatto, i capelli corvini ricadono sul cuscino e il suo morbido corpo color cioccolato risalta in tutta la sua muscolosità . Non vi è nulla di erotico in questo nudo femminile, tanto è vero che gli attributi della sua femminilità non sono visibili allo spettatore.

Alla fine dell’Ottocento compare un prototipo femminile estremamente in voga nella cultura contemporanea, che rompe con gli schemi tradizionali della donna sottomessa al predominio maschile. Si tratta della femme fatale, la donna dominatrice, lussuriosa e perversa, in grado di sedurre l’uomo soggiogandolo (si pensi da Eva, Medea, Cleopatra fino ad Elena Muti, protagonista del Piacere di D’annunzio).
La Madonna di Munch, noto pittore norvegese, a tutto sembra rimandare tranne che alla vergine cristiana. Una donna nuda, raffigurata a mezzo busto, si staglia nel dipinto con le braccia all’indietro e colta in un momento di estasi, quasi associabile all’orgasmo femminile. La disposizione dei capelli che le ricadono delicatamente sulle spalle, la pelle cadaverica e il ventre e i seni prosperosi emanano un alone di mistero e quasi lugubre fascino. Al posto della classica aureola dorata, c’è invece un cerchio rosso, simbolo della passione o del sangue.
Altro inestimabile simbolo di fatale seduzione è Giuditta I, di Gustav Klimt, uno dei più significativi artisti della Secessione viennese. Qui il noto personaggio biblico è calato nelle vesti sontuose di una donna contemporanea, in particolare Adele Bloch-Bauer, esponente dell’alta società viennese. L’incarnato pallido, gli occhi semichiusi in un’espressione malata di sfida, le invitanti labbra carnose e i gioielli splendenti. Tutti elementi che, nell’insieme, regalano allo spettatore una figura femminile potente e provocatrice. L’erotismo latente di Giuditta I si affievolisce in Giuditta II, che nonostante i seni scoperti risalta in tutta la sua crudeltà e gelida spietatezza, apprende con le unghie la testa di Oloferne come una belva che trattiene con orgoglio la preda.

Allontanandoci dal fascino mordente di Giuditta, il pittore colombiano Fernando Botero, col suo stile controverso, ci offre un repertorio di ritratti femminili del tutto atipici. Per il pittore, la bellezza risiede nella “sensualità delle forme, nella pienezza della vita”: l’abbondanza comunica positività , energia, desiderio. Egli ritrae donne (e non solo) dalle forme voluminose e sovrabbondanti, quasi irrealistiche, tirando un vero e proprio pugno ai suoi contemporanei. Le donne di Botero sono femminili ed eleganti, fragili e pudiche, spesso seducenti, colte per la maggior parte in attività semplici e quotidiane.
Nel corso del Novecento da un lato il cinema e la fotografia e dall’altro lo sviluppo della moda offrono all’umanità metodi innovativi per divulgare modelli di bellezza ed estetica. Negli anni ‘20 il prototipo di bellezza femminile è rappresentato dalla garçonne, caratterizzata da un corpo asciutto, tratti androgini, seno e vita quasi adolescenziali.
Dagli anni ‘40 agli anni ‘50 spopola il modello della pin-up americana, dalle gambe lunghe e tornite, forme voluminose e tratti marcatamente femminili. Pin-up per eccellenza è la diva hollywoodiana Marylin Monroe, che conquista i grandi schermi con la sua spumeggiante personalità , simbolo del sogno americano. Andy Warhol, artista statunitense e principale esponente della Pop art, decide di trasformarla in icona creando numerose serigrafie dedicate all’artista, in particolare un suo lavoro del 1962, realizzato all’indomani dell’inaspettato suicidio dell’attrice.
Negli anni ’60, decennio nevralgico contrassegnato da epocali rivolte sociali, si verifica un’altra rivoluzione estetica. Il nuovo ideale di bellezza, incarnato dall’attrice Audrey Hepburn, vede infatti una donna dal fisico sottile, longilineo, tonico e scattante. Nello stesso periodo, nasce la bambola di moda Barbie, prodotta dalla società di giocattoli Mattel. Quest’ultima è stata oggetto di numerose controversie legali, accusata infatti di aver diffuso tra le bambine un prototipo di bellezza falsato.

Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80, nel mezzo della nuova società consumistica, si sviluppa il fenomeno delle top model. Ragazze alte e sportive come Claudia Shiffer, Kate Moss, Linda Evangelista, che dominano la pubblicità , le riviste di moda e le passerelle.
L’avvento della globalizzazione e la nascita di internet favoriscono un susseguirsi di tendenze sempre nuove e diverse. Attributi come la magrezza e la tonicità vengono associati a qualità psicologiche determinanti, come la sicurezza di sè e l’auto-affermazione. Siamo in un momento storico in cui la donna, da sempre principalmente madre e moglie, vede riscritto il suo ruolo in società e nel mondo del lavoro. Al contempo, le sempre più sofisticate tecniche chirurgiche sembrano offrire alle donne un modo facile e indolore per aspirare al corpo dei loro sogni.
Negli Stati Uniti le modelle più popolari diventano le Victoria’s Secret Angels, azienda che dal 2006 vede un consistente aumento del suo fatturato. In pochi anni ottiene un successo mondiale, ma i suoi angeli incarnano il subdolo mito della magrezza assoluta, la c.d “donna grissino”, generando una pericolosa ondata di paranoia sociale e un’inevitabile declino del sogno femminista, che regredisce a logiche patriarcali.
Dopo le numerose polemiche, a maggio 2021 Victoria Secret ha annunciato di rinunciare definitivamente ai suoi angeli, mettendo al primo posto della sua l’inclusività . Tra le nuove reclute spiccano i nomi di Megan Rapinoe, celebre attivista e calciatrice statunitense, Priyanka Chopra, attrice indiana, Eileen Gu, sciatrice cinese. Paloma Elsesser, la prima modella plus-size a cui Vogue ha dedicato una copertina, Valentina Sampaio, iconica modella transgender e infine Adut Akech, modella rifugiata del Sud Sudan.
Grazie all’avvento di Facebook ed Instagram il definitivo disfacimento delle barriere comunicative determina la nascita del fenomeno delle influencer. Si ragazze e giovani donne che diventano le nuove guru della moda e dell’estetica. Esse danno miracolosi tips di bellezza e moda, raggiungendo una fetta di pubblico sempre più importante. Uno strumento appetibile e rivoluzionario di sponsorizzazione e pubblicità commerciale, di fruibilità istantanea, che vede in vetrina tipi di bellezza molto eterogenei. Si va dai lineamenti dolci di Chiara Ferragni o i tratti androgini di Cara Delevigne, alla stazza giunonica di Kim Kardashian, formosa ma tonica e slanciata.