Quando in Italia si fanno ricerche sull’intersezionalità, ci si trova subito di fronte a un problema (oltre all’estrema mancanza di fonti): il termine “intersezionalità” non esiste. O meglio, esiste, ma solo come traduzione del corrispondente inglese (Intersectionality).
Il termine viene attribuito all’autrice afroamericana Kimberlé Crenshaw, che lo definisce come: “l’idea che noi sperimentiamo la vita -a volte le discriminazioni, a volte i vantaggi- basati su un numero di identità differenti che possediamo. La parola l’ho coniata mentre studiavo come le donne di colore vengano discriminate non solo come persone di colore, o come donne, ma appunto come donne di colore”.
Lo studio a cui fa riferimento, aveva rivelato come il diritto antidiscriminatorio e le politiche antirazziste statunitensi considerassero le categoria di razza e di genere come indipendenti. Ciò complicava ulteriormente la condizione delle donne afroamericane, composta dall’intersezione di molteplici categorie sociali, che non veniva adeguatamente compresa e affrontata.
A livello teorico, fin dalla sua creazione, il concetto di intersezionalità è stato di difficile applicazione soprattutto per quel che riguarda l’identificazione delle categorie sociali da considerare, che secondo la sociologa Yuval Davis è potenzialmente infinito.
A mettere ordine, seppur parziale, sulla questione è stata la sociologa e professoressa Helma Lutz, la quale ha individuato 14 categorie: genere, orientamento sessuale, “razza”, etnia, nazionalità, classe, cultura, abilità fisica, età, status di residenza, possesso di proprietà, collocazione geografica, religione, condizioni di sviluppo sociale.

Se, quindi, nella teoria la discussione sull’applicazione e i possibili approcci metodologici alla questione rimangono aperti, nella pratica invece non è affatto complesso rintracciare le discriminazioni e le violenze cui il concetto fa riferimento.
La discriminazione del Financial pay gap
Le donne afroamericane, in ambito lavorativo, sono sottoposte ad una pesante discriminazione salariale. Solo in America, nel 2017, le donne nere hanno guadagnato 61 cents per ogni dollaro guadagnato da un uomo. Questo per un totale di 23,653$ in meno nell’arco di un intero anno di lavoro. Nell’arco di quarant’anni di carriera, questo si traduce in un divario di guadagno medio nel corso della vita, di 946,120$ tra donne nere e uomini bianchi.
La forbice più ampia in termini di divario salariale è tra le donne nere e gli uomini bianchi, ma le disparità emergono anche quando si comparano i salari delle donne bianche e degli uomini neri.
Identificare i fattori che influenzano il modo in cui il lavoro delle donne nere è concepito e valutato è la chiave per comprendere la derivazione della discriminazione. Quando razzismo e sessismo si combinano nell’ambiente lavorativo, l’effetto è devastante. Non a caso, nonostante il lavoro delle donne nere si sia spostato su più campi nell’arco degli anni, si è scontrato con una forte segregazione occupazionale. Con ciò si intende che le donne nere si concentrano in lavori con salari più bassi e mobilità limitata.
Storicamente, infatti, si rilevano tassi elevati di donne di colore nei lavori domestici e di assistenza, dove ricevevano salari bassi e poca considerazione per i loro obblighi familiari. Minimizzare l’importanza delle esigenze di assistenza, ha conseguenze pratiche che si ripercuotono su guadagni, successo lavorativo, salute e benessere. Le lavoratrici nere incinte, ad esempio, alle quali sono negate sistemazioni come ulteriori pause per l’acqua o l‘accesso a posizioni di servizio leggero, potrebbero dover scegliere tra mettere a rischio la propria salute o perdere il lavoro.
Il fenomeno della Violenza Ostetrica
Per “violenza ostetrica” si intende generalmente l’abuso e la mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere. Si parla di abuso fisico diretto, abuso verbale, procedure mediche coercitive o non acconsentite, gravi violazioni della privacy e molto altro. Il termine ha iniziato a diffondersi nei primi anni duemila e solo recentemente sta sviluppando la considerazione adeguata motivo per cui è raro sentirlo accostato alla questione dell’intersezionalità. Eppure in più di un’occasione si sposano perfettamente: Patricia Hill Collins ha quindi coniato il termine “controlling images” per descrivere le idee egemoniche utilizzate nella storia per legittimare la violenza contro donne nere e latine.
Certamente la schiavitù ha istituzionalizzato la perdita dell’autonomia riproduttiva e del possesso del corpo. In quanto proprietà legale, le donne schiave non potevano acconsentire né rifiutare le imposizioni degli uomini bianchi sui loro corpi. Era dunque una pratica comune quella di testare nuove terapie sui “corpi neri”, prima di applicarle sui “corpi bianchi”. Gli schiavi erano più soggetti a questo tipo di sfruttamento a causa dell’assenza di protezione legale.
La Ginecologia, in particolar modo, aveva bisogno di affermare il suo dominio su una pratica precedentemente femminilizzata e che era stata dominata dalle ostetriche e dalle guaritrici Indigene, specialmente nella comunità nera. E’ ben noto che James Marion Sims, considerato il padre della moderna ginecologia, abbia sviluppato la procedura chirurgica per riparare la fistola vescico-vaginale sperimentandola sulle donne schiave.

Questo approccio allo studio della Ginecologia ha portato a un pregiudizio che parte dalle sue radici storiche. Secondo la studiosa di diritto Khiara Bridges, si riteneva che le donne nere possedessero una “robustezza ostetrica” o delle “pelvi primitive”. Ad oggi, i “Centers for Disease Control and Prevention“, sostengono che le donne nere sono tre volte più propense a morire durante la gravidanza o per cause correlate al parto.
Questo dato viene spiegato in più di un articolo da Serena Williams, la celebre tennista, che ha cominciato una campagna di sensibilizzazione al riguardo. Dopo il parto della figlia Olimpia, infatti, ha cominciato ad avere problemi di respirazione. Avendo una storia medica di embolia polmonare, ha allertato subito i medici, i quali hanno rimandato gli esami da lei richiesti liquidandola come incompetente e paranoica a causa degli ormoni della gravidanza. Sei giorni dopo, Serena viene operata d’urgenza in codice rosso. Finalmente fanno le dovute analisi: embolia polmonare.
Questo episodio fa comprendere come il pregiudizio abbia una base talmente ampia da ricoprire più di una categoria sociale (tra cui genere, etnia, classe). Solitamente le più colpite sono donne con un retaggio culturale e sociale basso, ma non è una regola.
L’intersezionalità in Italia
Se non si è mai sentito parlare di intersezionalità in Italia il motivo è semplice: è un concetto che si è fatto strada solo di recente. Il femminismo italiano ha infatti la tendenza a dare la priorità alla questione di genere, che fino a pochi decenni fa si trovava in una condizione di arretratezza. Conquiste come quella del diritto di voto e al divorzio sono state tardive e calate in una cultura più uniforme e chiusa rispetto a quella Americana o Inglese.
Vincenza Perilli è stata tra le prime a riflettere sulla questione intersezionale in Italia evidenziando un dato promettente, ovvero lo sviluppo di una nuova generazione di femministe italiane che, trovandosi maggiormente a contatto con istanze postcoloniali e queer, iniziano ad accostarsi con nuovo interesse al concetto di intersezionalità e discriminazione.
Un altro elemento di novità che Perilli sottolinea è rappresentato dalle associazioni interculturali di donne che si sono costituite dagli anni ’90 con l’obiettivo di mettere assieme donne italiane e donne migranti. Dal protrarsi di queste esperienze ha poi estratto dei dati interessanti. A livello di dinamiche identitarie, infatti, si è creato nuovo spazio per una visione plurale e ibrida delle identità che va oltre la nazionalità o lo status migratorio. Allo stesso tempo a livello strutturale permangono delle asimmetrie tra donne italiane e donne migranti, rendendo difficile l’elaborazione di un progetto politico comune.
Nello specifico il dislivello tra le due categorie deriva dal confinamento delle donne migranti nel lavoro domestico e di cura. La maggior parte di esse quindi propone con urgenza di elaborare delle proposte politiche che possano incidere realmente sulla loro vita, dando una nuova prospettiva al problema delle diseguaglianze sociali.
Intersezionalità e nuovo attivismo
Un’altra esperienza costituitasi nel 2016 in Italia e che porta avanti un progetto femminista intersezionale è il movimento “Non una di meno“. nel “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” recentemente approvato si legge che: “Pratichiamo pertanto un femminismo intersezionale che (…) sceglie di lottare insieme contro la violenza del patriarcato, del razzismo, delle classi, dei confini“. Questo approccio va di pari passo con una “politica del posizionamento” che consiste nel “riconoscere che si parte sempre da una prospettiva situata, non imparziale, definita dalle diverse condizioni materiali e simboliche in cui ognun@ vive”.
Sono, queste, due prospettive che aprono una nuova stagione, più sfaccettata eppure paradossalmente più definita, dell’attivismo italiano.
Il Piano menziona anche il “transfemminismo“, che muove dalle esperienze trans, femministe e queer. I riferimenti alla transessualità sono fondamentali perché fanno riferimento ai soggetti che più di tutti subiscono discriminazioni di genere, che precludono loro l’accettazione a livello lavorativo, sociale, familiare. Questo tema in Italia viene ancora percepito come un tabù, un problema di tanto secondario da divenire argomento di contrattazione sull’approvazione del DDL Zan. E’ necessario partire da questa svalutazione per riconoscere l’esigenza di un nuovo -meno stereotipato e più protetto- approccio alla transessualità, raggiungibile anche grazie alle nuove frontiere più inclusive dell’intersezionalità.