I fan di The Handmaid’s Tale (serie tv statunitense del 2017 tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood) nel corso della quarta stagione assistono ad un tuffo nel passato di Janine, una delle ancelle protagoniste della realtà distopica di Gilead. In questo frammento della sua vita conosciamo più a fondo la Janine prima della guerra e della deportazione: una madre single con tutte le difficoltà che la sua situazione comporta e che, ad un certo punto della sua vita, scopre di essere incinta per la seconda volta. Decisa a voler interrompere la gravidanza, si rivolge ad una clinica dove incontra una volontaria che cercherà in tutti i modi di dissuaderla ad abortire.
Inizialmente l’operatrice appare gentile, accogliente, sembra mostrare empatia, ma tutto ciò si rivela, ben presto, frutto di un artificio, di una finzione. Nel momento in cui si arriva a parlare della procedura, il tono si fa più rigido e sa quasi di rimprovero. Un rimprovero fatto “a fin di bene”.
<<L’aborto è pericoloso […] le inseriscono un tubo dentro e lo usano per fare il bambino a pezzi. Lo tirano fuori pezzo per pezzo. E se un piccolo pezzo rimane dentro -tipo un dito del piede o della mano- l’infezione la renderà sterile. Il suo corpo è stato fatto per tenere quel bambino, non per eliminarlo. Tutte le donne si pentono di averlo fatto: lei crede che starà bene ma nessuno sta bene dopo aver ucciso suo figlio>>. Le parole della volontaria sconcertano Janine. Sono parole che evocano immagini forti, crude, angoscianti. I dettagli riferiti al feto rasentano il macabro.
Il clima della conversazione diventa soffocante. L’insistenza nei confronti di Janine svela, finalmente, la vera natura del colloquio. Infatti, poco importa se Janine abbia fissato un appuntamento per richiedere un’interruzione di gravidanza, in quella struttura non si praticano aborti. Lei, però, non ne era stata informata. La soluzione più ragionevole può essere soltanto quella di tornare a casa e ripensarci: in fondo, la sua non è stata altro che una scelta influenzata dalla mancanza di qualcuno che creda in lei come madre. Almeno, questo è il parere della volontaria, interessata a far cambiare idea a Janine piuttosto che ascoltarla.
La disinformazione degli antiabortisti: dai Centri di Aiuto alla Vita (Cav)…
La scena appena descritta non è così lontana dalla realtà , anzi ci restituisce una visione molto concreta di quello che è un fenomeno pericolosamente diffuso. Nel 2018 un’inchiesta di openDemocracy ha fatto luce sulla presenza di una vera e propria rete di volontari che svolge attività di accoglienza, informazione e sostegno alle donne all’interno di uffici denominati “Centri di gravidanza in crisi” (Cpc). In Italia si chiamano Cav (“Centri di Aiuto alla Vita”) ma la sostanza non cambia. La rete, che si dirama a livello internazionale, parte oltreoceano, dagli Stati Uniti dove fa capo ad un’associazione di matrice cattolica e anti-abortista: la Heartbeat International. Quest’ultima, legata alla ex amministrazione Trump, ha collaborazioni e svolge finanziamenti anche in Italia e detiene un registro che sembra contare più di 400 centri sparsi sul nostro territorio nazionale.
In più della metà delle regioni italiane i Cav superano numericamente gli ospedali in cui si effettuano le Interruzioni Volontarie di Gravidanza (Ivg). Ma oltre alle strutture ospedaliere i Centri di Aiuto alla Vita si trovano dislocati anche all’interno di consultori familiari e in centri di accoglienza.
Francesca Visser, giornalista di Vice che ha partecipato all’inchiesta sotto copertura di openDemocracy, ha fatto emergere uno dei principali aspetti che accomuna molti dei volontari che si immolano per la causa: la disinformazione. È molto probabile, infatti, che le donne che si rivolgono a questi centri ricevano notizie errate, distorte o del tutto infondate dal punto di vista scientifico riguardo le interruzioni di gravidanza. La Visser racconta di aver contattato, insieme alle colleghe con cui ha collaborato nel corso dei nove mesi di inchiesta, centri simili in diciotto Paesi del mondo, presentandosi come donne incinte. Tutte si sono ritrovate ad imbattersi “[…] in una rete che veicola informazioni fuorvianti e manipolate sull’aborto, con l’obiettivo di scoraggiare le donne a sottoporvisi“.
“L’aborto rende la donna sterile“, “l’aborto distrugge l’utero“, “l’aborto aumenta il rischio di tumori“, “la donna che abortisce ha un rischio molto più elevato di arrivare ad abusare dei propri figli“. Queste sono solo alcune delle frasi che si sono sentite dire: pseudo-argomentazioni anti-scientifiche, false e ingannevoli su complicanze e rischi legati alle pratiche abortive, con il solo intento di spaventare, incutere timore ed alimentare la paura. Questo, però, non è l’unico aspetto della manipolazione.
… ai manifesti esposti nelle strade
La comunicazione degli anti-abortisti è intrisa di assurdità concettuali che rischiano di minare seriamente il principio della cosiddetta “scelta informata”, specialmente se rivolta a donne più vulnerabili dal punto di vista psicologico o sociale. Ma questo tipo di linguaggio comunicativo non ci è nuovo e non si limita ai Cav. Lo abbiamo visto riversarsi anche nelle strade, su manifesti e cartelloni esposti sopra le teste dei passanti.

Uno dei più noti, quello promosso dalla onlus Pro Vita e Famiglia, apparso lo scorso anno in diverse città italiane tra cui Roma e Milano, che ritraeva una donna stesa a terra, avvelenata da una mela ancora stretta nella sua mano destra: il simbolo di una Biancaneve uccisa dalla RU486 (conosciuta anche come “pillola abortiva”), che all’interno della narrativa favolistica del manifesto rappresenta il veleno che trae in inganno la donna sotto forma di qualcosa di apparentemente positivo (la mela, appunto).
Innanzitutto, la disonestà dell’immagine parte dalla metafora del veleno: paragonare la pillola abortiva ad una sostanza tossica è totalmente inappropriato. In Italia la RU486 è stata approvata nel 2009 dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), il principale ente regolatorio nazionale che si occupa di verificare la sicurezza dei farmaci immessi in commercio. Parlare di rischio per la salute significa mentire alle donne, oltretutto sostenendosi dalla loro parte, come a volerle proteggere da un pericolo esterno che, nella realtà , non esiste.

Inoltre, la donna assume i caratteri di una persona fragile, priva di qualsiasi capacità autodeterminante, che la porta a subire un inganno come fosse un destino inesorabile dal quale ne esce vinta, sconfitta. La decisione di ricorrere ad una interruzione di gravidanza perde completamente il valore di “scelta”, divenendo un agire condizionato e dipendente da un’ingenuità di fondo. Viene a mancare, di conseguenza, il riconoscimento di una volontà consapevole e ragionata che porta la donna ad esercitare il suo diritto ad autodeterminarsi e a decidere del proprio corpo.
Analizzando altri manifesti pro-vita, diventa facile smascherare l’ipocrisia degli anti-abortisti. La donna non è soltanto la Biancaneve vittima della RU486 ma, all’occorrenza, anche una complice di omicidio. La propaganda no-choice, infatti, ricorre di frequente a messaggi che hanno lo scopo di instillare il senso di colpa nelle donne, in modo più o meno esplicito, ma mantenendo, allo stesso tempo, una posizione ambivalente nei loro confronti. Da una parte, l’aborto, quindi chi lo pratica, viene pubblicamente condannato e stigmatizzato, dall’altra si rivendica il bisogno di rivelare i pericoli (di dubbia fondatezza) legati all’ivg per ridare alle donne una libertà di scelta non più corrotta da chi, invece, l’aborto lo sostiene.

La libertà di scelta viene indirizzata verso una sola e unica possibilità : rinunciare ad abortire. Eppure, scegliere non dovrebbe avere una duplice valenza? La dichiarata battaglia a tutela della salute delle donne diventa l’ennesima scusa per attaccare la Legge 194 e la disinformazione è la trappola messa in atto per ostacolarla.
Cosa ci insegna la scena di The Handmaid’s Tale?
Dopo aver ricevuto un rifiuto alla sua richiesta di interrompere la gravidanza, Janine si reca in un’altra struttura dove, finalmente, non dovrà più rifare i conti con il muro dell’obiezione di coscienza. Seduta ai piedi del lettino ginecologico, si sente quasi in dovere di giustificare la sua presenza in quel luogo, in quel particolare momento della sua vita. Ma la ginecologa non la lascia finire; prima di fornirle il farmaco per abortire e di indicarle le modalità di assunzione, arriva al cuore della questione, mettendo al centro il volere di Janine.
<<Lei vuole essere incinta adesso?>>
<<No.>>
<<Ed è sicura della sua scelta, la sta facendo da sola?>>
<<Sì.>>
<<Allora il resto non è affare mio.>>
“Il resto non è affare mio”. Questo le basta per prendersi carico della sua richiesta ed accettarla senza critiche né giudizi.
Il personaggio interpretato dalla ginecologa veicola il concetto secondo cui mettere al primo posto i bisogni delle donne è parte essenziale del processo di realizzazione dei diritti fondamentali legati alla salute sessuale e riproduttiva. Tutelare l’accesso all’aborto significa tutelare la salute. E nel farlo, si dovrebbero ridurre il più possibile disagio e sofferenza per una scelta che, non sempre, risulta facile da affrontare.