Un fenomeno complesso, difficile da capire in tutti i suoi aspetti e non imputabile a una sola causa: questi sono i grandi scogli per i quali è difficile estirpare il caporalato. La legislazione in materia, molto carente, lo affronta minimizzando il tema, risultando così inefficace. La realtà è, infatti, ben diversa, poiché il caporalato incide nel tessuto societario in vari modi: dal lavoro, fino al prodotto che spesso consumiamo senza conoscerne i vari passaggi produttivi.
Cos’è il caporalato e quali sono le condizioni dei lavoratori
Il caporalato è un’organizzazione del lavoro basata sul sistema illegale del “caporale”, ovvero colui che recluta le persone per svolgere lavori prettamente riguardanti manodopera a basso costo. Il caporale ha il compito di condurre gli operai sul luogo di lavoro, di reclutarli e di pagarli a fine giornata riscuotendo un guadagno del tutto illecito. Un business dai ricavi stellari che reca danni al Paese per oltre 600 milioni di euro.
I dati sullo sfruttamento sono sconcertanti, soprattutto per la concentrazione di questo fenomeno in una parte dell’Italia e per la percentuale di stranieri “vittime” del sistema. Secondo le stime sono 400 mila i lavoratori coinvolti nel caporalato nel nostro Paese, con addirittura l’80% che non ha la cittadinanza italiana: stranieri che ricevono un salario giornaliero che ammonta a circa la metà di quello stabilito dai contratti nazionali. Il fenomeno è largamente diffuso nel Mezzogiorno, dove è particolarmente totalizzante in tutte le sue misure, ma non manca anche nel settentrione e al centro, dove è drasticamente in aumento. I distretti agricoli in cui si pratica il caporalato sono 80. Di questi, in 33 sono state riscontrate condizioni di lavoro “indecenti” e in 22 “di grave sfruttamento”.
Parlando nello specifico dei ricavi di chi gestisce l’organizzazione, si pensa che quello che i sindacati definiscono “business degli irregolari” abbia un valore di circa 5 miliardi annui, un quinto del valore generato da tutta la filiera agricola italiana in un anno. Un’enormità, soprattutto perché una grandissima fetta del lavoro non soltanto è gestita in nero, ma subisce anche il controllo dei caporali. Le giornate di vita dei braccianti sono ai limiti dell’invivibile. Il turno ha inizio alle 3 del mattino, quando il caporale carica tutti i lavoratori per portarli sul posto di lavoro, dal quale non usciranno prima di aver compiuto dalle 8 alle 12 ore al giorno sotto il sole in condizioni disumane, venendo complessivamente pagati una somma simile a 2 euro l’ora. A paragone, in Italia l’ultimo contratto nazionale collettivo stabilisce per gli operatori agricoli non specializzati una paga minima mensile di 874,60 euro, mentre il salario di coloro che lavorano sotto caporali è del 50% inferiore. In aggiunta, spesso le donne nel mondo del caporalato sono fortemente discriminate e arrivano a percepire paghe del 20% inferiori rispetto a quelle degli uomini.
Proprio questi lavoratori sono considerati gli “invisibili” della società, essendo costretti a ritmi insostenibili e a rischi sempre maggiori. Basti pensare che il 72% dei braccianti presenta malattie che prima dell’inizio della stagione lavorativa non si erano manifestate, mentre il 64% non ha accesso all’acqua corrente e il 62% dei lavoratori stranieri impegnati nelle stagionalità agricole non ha accesso ai servizi igienici. Una tortura perenne che avviene sotto gli occhi disinteressati dello Stato.
Le cause e le leggi per contrastare il caporalato
Sono diverse le cause per le quali insorge il caporalato all’interno del mondo lavorativo dell’agricoltura e non solo.
In particolare, un rapporto di una serie di associazioni a difesa dei diritti di braccianti e operai indica tra gli elementi fondamentali la mancanza di sistemi ufficiali di reclutamento che funzionino in maniera efficace, oltre all’isolamento dei campi di raccolta, la frammentazione del sistema produttivo e la sua inadeguatezza nel rappresentare gli interessi dei piccoli agricoltori, e un’elevata domanda di forza lavoro, tipica delle stagioni di raccolta. Il documento indica quindi i caporali come un anello che copre un ruolo di intermediazione che risulta necessario per alcune mancanze strutturali del settore.
In particolare, un vero dramma è rappresentato dall’isolamento dei campi, che porta inevitabilmente alla necessità per i lavoratori di spostarsi anche per lunghe tratte attraverso un sistema che singolarmente non posso gestire, dovendo perciò affidarsi ai caporali. In questo modo gli intermediari possiedono un monopolio dei sistemi di trasporto, dominando del tutto l’attività lavorativa dei sottoposti, costretti ad accettare qualsiasi condizione pur di ottenere il minimo guadagno, per poter raggiungere il sito di raccolta. I caporali possono quindi estorcere una parte della (già misera) paga ai braccianti in cambio del trasporto, come una sorta di pizzo da chiedere quotidianamente. Le tariffe per i trasporti sono talvolta anche impietose, potendo tranquillamente raggiungere i 5 euro al giorno, praticamente un quinto della paga giornaliera del bracciante, con condizioni di sicurezza inesistenti durante il tragitto.
L’art. 12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 è stato in grado di introdurre all’interno del codice penale il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Di conseguenza, per la prima volta sono state create delle pene per i cosiddetti “caporali”. Il governo stesso ha annunciato il ricorso a strumenti normativi per punire gravemente, fino alla confisca dei beni, le aziende che utilizzano manodopera tramite il caporalato. Tuttavia, sin da subito sui media si è sottolineato che il problema risieda principalmente nell’intermediazione, mascherata da forme solo in apparenza con una rispettabilità legale.
La questione, tuttavia, va risolta a monte attraverso una differente rivisitazione del modello agricolo e del loro rapporto con le unità aziendali. Il fatto che nel nostro Paese si pensi di risolvere tali questioni solo con disposti di legge la dice lunga su come, nello specifico, questo fenomeno non possa essere debellato così facilmente. Occorrono ricette diverse che non possono essere di natura esclusivamente legislativa e penale ma di natura strutturale.

Il caporalato che colpisce i giovani
Questo sistema marcio si ripercuote, come già detto in anticipo, non solo in campo agricolo. Il concetto di “caporalato” si estende ben oltre i lavoratori stranieri e comprende anche i giovani italiani. Un caso esemplare degli ultimi giorni è proprio quello che vede coivolta Grafica Veneta, azienda specializzata nell’editoria di libri. Il proprietario dell’azienda, Fabio Franceschi, da tempo lamentoso circa la scarsa intenzione dei giovani di sottoporsi ai turni, ha dovuto commentare undici arresti di cui due dirigenti di Grafica Veneta. Il motivo lo ha spiegato la Procura di Padova, che ha scoperto un vero e proprio sistema di caporalato. L’azienda di Franceschi appaltava alcuni aspetti produttivi a BM Services, con sede a Trento, che dapprima assumeva cittadini pakistani con regolare contratto e poi li costringeva a lavorare 12 ore al giorno presso varie aziende italiane.
Il caporalato di qualsiasi tipo, ingloba poi una serie di comportamenti spaventosi e grotteschi: nel caso di Grafica Veneta sono emersi dettagli sempre più terrificanti, quali pestaggi e furti di documenti nel caso i lavoratori si rivolgessero ai sindacati, ma anche orari sfiancanti e, infine, che gli stessi dipendenti erano costretti a pagare il posto letto per vivere ammassati in piccoli appartamenti.
Questa piaga del lavoro in Italia permane e rischia di diventare sempre più florida: senza una classe politica capace di far fronte a problemi di questo tipo, il pericolo è di sprofondare sempre più nell’abisso, non curandoci mai del divario che si va creando fra l’Italia prospera e quella “invisibile”.