Di survivor ritenute “colpevoli”, victim blaming e cultura dello stupro

Di survivor ritenute “colpevoli”, victim blaming e cultura dello stupro

ARTICOLO DI MATTEO MASCIOLI PER IL LICEO KANT DI ROMA

 

«Mi toglieva i pantaloncini e le mutande, io mi dimenavo perché non volevo. Ma non riuscivo a contrastarlo completamente perché non mi sentivo bene» queste le parole di Silvia, 19enne survivor, vittima di stupro di gruppo da parte del figlio del leader Ms5, Ciro Grillo e dei suoi amici: Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, i fautori del brutale atto di forza. Perché sia chiaro, lo stupro non è dettato da un impulso, bensì si configura come metodo attraverso cui ristabilire dinamiche di potere, dunque l’abuso non c’entra nulla con il sesso.

Anzi. Alla radice della violenza di genere c’è infatti la necessità di ribadire la presunta e falsa superiorità dell’uomo che si concretizza sotto forma di catcalling, violenza sessuale, diffusione non consensuale di immagini intime ma non solo, e che indissolubilmente marchia la survivor. Che sia in camera da letto, per strada o alla stazione della metro l’uomo fa della violenza di genere il manifesto della cultura patriarcale, si fa dunque interprete di un sistema che giustifica lo stupro e lo normalizza arrivando persino a colpevolizzare la vittima. Proprio questo è il victim blaming: addossare colpe inesistenti alla survivor al fine di deresponsabilizzare l’autore del reato.  Ricorre a questa pratica Beppe Grillo, padre di uno degli accusati, che pur di difendere il figlio pubblica un video sulla piattaforma social di Instagram in cui afferma che “non è vero niente che c’è stato uno stupro. Non c’è stato niente. Perché una persona che viene stuprata la mattina il pomeriggio fa kitesurf e dopo otto giorni fa la denuncia […] è strano!”.

A proteggere lo stupratore non è solo il padre ma la stessa legge: basti guardare l’art. 609- septies del codice penale che dà, nella maggior parte dei casi, come termine per la proposizione della querela solamente sei mesi. Passato il semestre, la donna non avrà più giustizia.  Ci rendiamo conto? Ad accogliere la vittima ci dovrebbe essere un ambiente in grado di supportarla e comprenderla mentre c’è una gabbia, di cui solo il violentatore ha le chiavi, con una folla urlante ,di là delle sbarre, ad accerchiarla, che sputa sentenze, affibbia alla survivor soprannomi come “Tro*a” e che le grida che “se l’è cercata con quella gonna troppo corta”.  Un quadro sicuramente poco accomodante, almeno per la vittima, che spesso viene esortata a tacere.

“Castellammare, il sacerdote che invita le donne picchiate a non denunciare” (Repubblica), ma a suggerire il silenzio alle survivor non è solo il membro del clero: “lo volevo denunciare, il carabiniere mi disse: “Signora, sicuramente ha un’amica da cui poter andare a dormire. Si riposi. Torni domani”. Non sono più tornate, né a casa mia, né a denunciarlo” (la Stampa). E questa è solo una delle tante volte in cui le survivor sono state portate a non denunciare. Si propone questo avvenimento sistematico come la naturale conseguenza di un assetto sociale che tende a giustificare la violenza che diventa metodo di correzione.

Cultura dello stupro

E questo assetto ha un nome: si chiama cultura dello stupro.  Contribuiscono ad accrescere l’idea comune secondo cui la violenza sia l’effetto di un comportamento della vittima i giornali che a volte propongono una narrazione poco aderente alla realtà. Per capirlo basta leggere il titolo di un articolo de Il Giornale del settembre del 2019: “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto” o il modo in cui viene dipinto Genovese, ora in carcere per stupro, “un vulcano di idee che per il momento è stato spento” (il sole 24 ore).  Nel novembre dello scorso anno il collettivo del nostro liceo ha alzato la voce contro il sistema patriarcale che fa da tetto alle nostre vite, opprimendoci e non lasciandoci vedere il sole, il lume di una nuova realtà in cui le donne non debbano girare con le chiavi chiuse nel pugno.  Ha raccolto le storie di survivor della nostra scuola che in forma anonima hanno denunciato quello che hanno subito. Sui cartelli fatti scorrere nel video pubblicato su Instagram dalla pagina del @collettivo_studentesco_kant si legge “Vorrei poter vivere senza dover stare in costante paranoia”, “Un uomo si è masturbato davanti a me in autobus”, “Sono una donna privilegiata, ancora viva”. Ogni quindici minuti una donna in Italia è vittima di violenza. Per leggere le 705 parole di questo testo, ci vogliono poco più di 3 minuti. Quando avete iniziato a leggere questo articolo una donna ha subito violenza, tra solo dodici minuti sarà un’altra ad essere vittima. Tic tac. E mentre il tempo scorre la cultura dello stupro continua ad affondare sempre di più le sue radici nel nostro paese, l’Italia, condannato dalla Corte europea dei diritti umani per “pregiudizi sulle donne”. 

Pubblicato da Giornalini scolastici

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