Il confine tra stupore e indifferenza è sottile, proprio come quello tra indignazione e menefreghismo. Quando internet è entrato nelle nostre case, si pensava che vedere con mano cosa stesse accadendo nel resto del mondo ci avrebbe resi più sensibili ed empatici.
Perciò vedere le immagini di bambini senza vita nel Mar Mediterraneo sarebbe dovuto essere un evento tristemente indimenticabile, da commentare, analizzare e sviscerare, perché atti così disumani non dovrebbero mai avvenire. E invece è stato il contrario. Di foto di bambini morti nel Mar Mediterraneo ne abbiamo viste molteplici solo negli ultimi giorni, eppure ne abbiamo parlato poco. Oppure non ne abbiamo parlato affatto. Spesso abbiamo preferito continuare a “scrollare” il nostro social di riferimento senza soffermarci troppo su quella sofferenza.
Perché internet ha portato nelle nostre case troppa sofferenza rispetto a quella che siamo in grado di accettare e metabolizzare. Così vedere ogni giorno foto di disastri ambientali e umanitari, dopo l’iniziale stupore intristito, ci ha portati a costruire un muro di indifferenza come barriera personale.
Cadaveri di bambini nel Mediterraneo
Le immagini sono dure. Troppo. Per questo, per chi non le avesse viste, può trovarle qui. Per chi preferisse non vederle, non c’è nulla di cui vergognarsi. Le immagini sono state pubblicate su Twitter dal fondatore della Ong catalana Open Arms, Oscar Camps. La pubblicazione delle foto non è stata mirata a farle diventare virali per il solo gusto della popolarità , ma per condividere una realtà che spesso non vediamo o preferiamo non vedere
Come ci sono arrivati quei corpi in mare? L’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni unite ha affermato che è “difficile capire cosa sia accaduto”, perché probabilmente si tratta di un naufragio non registrato ufficialmente. Ciò che è certo è che sono stati trovati questi corpi su una spiaggia di Zuwara, in Libia. Dopo tre giorni sono stati individuati e seppelliti dai militari libici nel cimitero di Abu Qamash, a ovest di Zuwara. Difficile fare una ricostruzione più accurata di questa, dal momento che nella sola settimana tra il 16 e il 22 maggio circa 1500 persone sono state recuperate in mare dalla Guardia costiera libica, per poi essere riportate a Tripoli.
Le notizie di naufragi si susseguono ogni giorno, ma la nostra soglia di sopportazione si è così assottigliata che finiamo per pensare a quei naufragi come a nuove cifre per le statistiche dell’immigrazione. Abbiamo cancellato tutti quei migranti della loro identità per salvaguardare la nostra. Pensare che sono morti altri 60 migranti a un passo dalle coste libiche per via dell’ennesimo barcone ribaltato è così inaccettabile che ci autoimponiamo di dimenticarlo il prima possibile, o di non ascoltarlo affatto.
Il suicidio dei migranti
Cosa succede poi quando i migranti arrivano in Europa? Cosa succede quando il barcone non si ribalta, le guardie costiere libiche non riescono a fare da schermo, e i barconi di migranti arrivano sulle nostre coste? Siamo abituati a pensare alla vita dei migranti solo in mare, ma di quello che accade poco siamo poco consapevoli.
La risposta è che soffrono. Tutto ciò che fanno una volta arrivati in Europa è soffrire. Una continua fuga dalla precarietà , una continua ricerca della documentazione necessaria per poter essere accettati e non rispediti nei territori d’orrore da cui sono scappati. Una continua ricerca di normalità che quasi mai viene ritrovata.
Di questa sofferenza perpetua ne sono testimoni le storie di questi ultimi giorni condivise dall’Internazionale. La prima è quella di Mosua Balde, 23enne originario della Guinea che si è tolto la vita lo scorso 22 maggio nel Centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi a Torino. Ha maturato la decisione di suicidarsi dopo che il 9 maggio aveva subito un’aggressione da parte di tre italiani a Ventimiglia, che fuori da un supermercato lo avevano attaccato con spranghe, bastoni e tubi per rubargli il telefonino. È andato in ospedale per questo.
Una volta identificato è stato portato nel Centro per il rimpatrio in quanto su di lui pendeva un provvedimento di espulsione. Le cause del suicidio non sono esplicitate, ma conoscere la sua storia aiuta a comprendere tutto ciò che ha dovuto passare, e che in Italia non ci era venuto per comodità o pigrizia, ma per sopravvivenza. Il nostro paese non è stato nemmeno in grado di garantirgliela.
I migranti del Regno Unito
Anche nel Regno Unito c’è una situazione simile a quella appena descritta di Mosua Balde. Nel periodo che va da luglio 2020 a dicembre dello stesso anno, infatti, circa un terzo dei migranti detenuti nei centri per il rimpatrio sono stati messi sotto osservazione perché avevano mostrato comportamenti autolesionisti e suicidari. Le restrizioni dell’asilo conseguenti alle nuove regole adottate con la Brexit, hanno portato molti richiedenti asilo nei centri di detenzione per il rimpatrio. Il rischio di essere riportati da dove sono scappati è motivo di grande stress e ansia, che nella maggior parte dei casi si trasforma in un aumenti dell’autolesionismo e di tentativi di suicidio.
Alcuni studi sui casi inglesi riportano di casi disturbanti in cui dopo un tentativo di suicidio fallito, a seguito delle cure mediche, i migranti venivano direttamente messi su aerei che li riportavano nel paese d’origine. Addirittura si parla di un caso di migrante trasportato in aeroporto per il rimpatrio ancora sanguinante. 11 siriani sono stati portati dal Regno Unito alla Spagna e lì abbandonati senza nessun avere per le strade di Madrid.
Questi sono solo esempi di come la vita del migrante non termini una volta che il barcone arriva sulle coste europee, ma che anzi quello è solo l’inizio di una serie di trattamenti disumani che subiscono. In alcuni casi ricevono minacce da parte di emissari dei regimi dittatoriali dai quali scappano che li obbligano a tornare indietro, in altri casi quando ottengono la cittadinanza sono costretti a fare una vita anonima per non farsi identificare da quegli stessi emissari che si assicurano che non testimonino contro il regime.
Indifferenti
Ma noi non vediamo niente di tutto questo. Non la loro sofferenza, non il loro passato di vita: niente. Giriamo la testa dall’altra parte e fingiamo che niente di tutto questo sia vero. La verità è che il flusso continuo di notizie che troviamo su internet non ha fatto altro che renderci disconnessi dai veri sentimenti umani.
Tutto quello che vediamo, lo vediamo su uno schermo che non restituisce niente di vero. Sono tutte sensazioni plastificate in un mondo che percepiamo come artificiale solo perché non sappiamo più guardare davvero. E così i migranti muoiono sotto i nostri occhi, ma noi abbiamo lo sguardo altrove. Quando li guardiamo, lo facciamo attraverso la telecamera del nostro smartphone. L’umanità muore mentre l’uomo controlla i social.
Indifferenti.