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In questa seconda parte, continuiamo la nostra narrazione analizzando l’evoluzione del debito pubblico italiano, partendo dalla Seconda Guerra Mondiale fino ad arrivare ai giorni nostri.
La Seconda guerra mondiale
A causa della crisi del 1929 e della conseguente Grande Depressione torna a crescere il debito, che raggiunge l’88% in rapporto al prodotto interno lordo nel 1934. Il motivo principale va ricercato nella rilevante diminuzione delle entrate a fronte di una spesa pubblica annuale che rimane pressoché costante in termini nominali.
Nonostante l’aumento delle spese militari, nella seconda metà degli anni Trenta, il buon andamento economico consente al Regno d’Italia di ridurre il passivo al 79% del Pil. L’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale comporta inevitabilmente un nuovo incremento del debito, che raggiunge il 108% nel 1943. Nell’immediato dopoguerra un’inflazione a doppia cifra abbatte il debito, riportando il rapporto con il Pil al 40%.
Il “Miracolo economico italiano”
Dopo l’iniziale fase di ricostruzione, tra gli anni ’50 e ’60 grazie al cosiddetto “Miracolo italiano”, l’economia del nostro Paese cresce in media del 5% annuo senza inflazione e il rapporto debito-Pil si trova al 33%. Per quale ragione abbiamo goduto in quegli anni di un così basso livello di indebitamento?
I motivi vanno ricercati nella differenza positiva tra il tasso di crescita dell’economia nazionale e il costo del debito, e nella politica fiscale che si mantiene molto equilibrata, un po’ per scelta ma soprattutto per effetto del “boom economico”. Se il debito aumenta, ma aumenta anche la crescita non è un problema perché il Paese può ripagarlo. Il problema si pone, invece, se la crescita è più bassa del tasso d’interesse che si paga sul debito perché, in questo caso, tende ad aumentare.
Tali condizioni favorevoli continuano fino alla fine degli anni ‘60, tuttavia iniziano già ad emergere le prime tensioni finanziarie ed economiche, sia sul piano interno che su quello internazionale.

Gli anni Settanta e l’inizio del declino
La quarta fase di boom del debito ha inizio negli anni ’70 ed è quella di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. In quegli anni la situazione delle nostre finanze pubbliche peggiora notevolmente.
La crescita economica si attesta intorno al 3% medio annuo, notevolmente più bassa rispetto alle performance del “miracolo economico” del decennio precedente, che appaiono ormai solo un lontano ricordo. Intanto il miglioramento del welfare provoca un aumento della spesa pubblica che si combina con la stagnazione delle entrate dando vita a un mix fatale che a partire dal 1973 porta l’Italia a chiudere bilanci in pesante deficit.
Pur aumentando nei primi anni ‘70 a causa della recessione, il debito non esplode, ma si mantiene su livelli ancora sostenibili, infatti nel 1981 si trova al 60% del Pil. A favorire ciò è la Banca d’Italia, che, stampando moneta, si impegna a garantire l’acquisto delle obbligazioni rimaste invendute alle aste dei titoli governativi. È proprio attraverso tale garanzia che, tra il 1975 e il 1981, gli interessi pagati dall’Italia sul debito erano nettamente inferiori rispetto all’inflazione. In questo modo il costo dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici, ma si scarica sulla lira, che nella seconda metà degli anni ‘70 si svaluta di un impressionante 40% rispetto al dollaro.
Il “decennio perduto” del debito
Nel 1981 gli Stati Uniti del nuovo presidente Reagan decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora al 14% negli Usa). La Fed applica una netta stretta sui tassi d’interesse, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo così l’aumento dei prezzi, ma innescando una mini-recessione. Tutte le altre banche centrali, compresa Bankitalia, sono costrette a seguire l’operato Fed, la più influente a livello a mondiale.
È in questo contesto che nel luglio dello stesso anno il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, e il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, avviano il cosiddetto “divorzio”. L’istituto di Via Nazionale, come altre banche centrali, si libera dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti, tornando ad essere indipendente nelle scelte di politica monetaria. Tutti i principali partiti politici si oppongono, ma la decisione permette alla lira di restare all’interno dello SME (Sistema monetario europeo), destinato a diventare il fulcro della futura Unione monetaria.
Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni tragiche: l’inflazione registrava valori intorno al 17% divorando il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, mentre i tassi d’interesse pagati sul debito all’inizio dell’anno superano il 25%.
I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta mantengono saldi primari estremamente negativi (si sfiora il 15% l’anno), trascurando la disciplina di bilancio e i moniti del governatore Ciampi. È in questi anni che l’Italia usa l’arma della spesa pubblica con eccessiva disinvoltura, il debito decolla, anche perché a causa di un’inflazione stabilmente sopra il 10% fino al 1985, per trovare acquirenti di titoli governativi i tassi restano sempre a doppia cifra. La mole del debito cresce a dismisura: dal 60% del 1980 raggiunge il 100% del Pil in soli 10 anni.
Come sottolineava già nel 1983 il futuro presidente della Repubblica Ciampi, in quegli anni sono «stati introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita, promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile in tempi brevi».

Dagli anni ’90 all’attualità
Durante gli anni successivi al divorzio, il debito inizia la sua pericolosa salita, arrivando a toccare il 121% nel 1994, limite che verrà oltrepassato solo a partire dal 2011, anno che ha visto il nostro Paese vicino al default.
Con i Governi Amato (1992) e Ciampi (1993), l’Italia persegue come obiettivo prioritario il riequilibrio finanziario. Il rapporto debito/PIL inizia quindi una moderata discesa che lo riporta intorno a quota 100% nel 2002, anno di entrata in circolazione dell’euro.
Dal 1991 in poi, ad esclusione del 2009 (uno degli anni peggiori per l’economia del Belpaese), l’Italia registra ogni anno un avanzo primario, ma questo non è sufficiente a far scendere l’enorme valore del passivo.
Dal 2002 fino al 2008 il rapporto debito/PIL è rimasto pressoché costante, oscillando tra il 99% e il 102%, e gli interessi pagati sul debito hanno subito una riduzione grazie alla maggior stabilità garantita dall’Eurozona. In tal senso, l’entrata in vigore dell’euro avrebbe dovuto aiutare ad abbattere il debito accumulato negli anni ‘80, come era accaduto in altre nazioni, ma ciò purtroppo non si verifica.
Con la grande crisi del 2008-2009 il PIL scende vertiginosamente, ed il rapporto debito/PIL raggiunge valori altissimi, fino ad arrivare al 134,8% del 2019. Ad influire nello spaventoso aumento del debito è stata da un lato la contrazione del PIL, dall’altro la crisi dei debiti sovrani (2011-12) che ha visto l’Italia arrivare a pagare interessi sul Btp decennale superiori al 6%. Tutto ciò si è verificato in una situazione in cui i tassi stabiliti dalla BCE sono stati a livelli molto bassi, o addirittura nulli, e con il supporto della misura straordinaria del Quantitative Easing.

La crisi Covid-19 e le prospettive future
L’emergenza Covid-19 ha impattato in modo straordinario sul debito pubblico italiano. Al momento, non sono ancora ben chiari gli effetti complessivi, mentre il quadro macroeconomico, insieme a quello di finanza pubblica, appare in continuo movimento, legato a previsioni e stime eccessivamente friabili.
Secondo i dati del Fmi, il debito dell’Italia è salito dal 134,6% del Pil nel 2019 al 157,5% del 2020. E quest’anno crescerà ancora arrivando a toccare il 159,7%, in peggioramento rispetto alla stima dello scorso ottobre, quando il Fondo aveva previsto un debito al 158,3%. Sul fronte del deficit gli esperti di Washington prevedono invece un calo dal 10,9% del 2020 al 7,5% nel 2021.
Ne deriva una sostenibilità del debito pubblico italiano, nel medio e lungo termine, piuttosto incerta, con l’economia del nostro Paese sempre più dipendente dalle decisioni europee di politica economica e monetaria.