L’uomo, per vivere, ha bisogno di storie. È un’insopprimibile esigenza, quella di tradurre l’universo interiore in forme d’arte – pittura, letteratura, e soprattutto cinema e tv – che consentano la narrazione. Una spinta talmente forte da indurre ad applicare schemi narrativi alla nostra stessa realtà. Così, che si tratti di fiction o di non-fiction, queste strutture si ripetono in modo che all’interno del racconto siano sempre identificabili tutti i ruoli, che da tempo appaiono regolati da una legge non scritta: Il protagonista, nelle nostre vite o dentro uno schermo, dev’essere buono.
Eppure, negli ultimi tempi, stiamo assistendo ad un cambiamento. Gli schemi narrativi, in particolare nella serialità televisiva, sono un riflesso del mondo ed evolvono di pari passo alla società. Una realtà più articolata corrisponde necessariamente a ruoli narrativi più complessi. Ecco quindi farsi prepotentemente spazio una nuova figura: il rough Hero, l’antieroe seriale. Spesso banalmente conosciuto come “il cattivo”.
I personaggi delle serie tv sono infatti il riflesso del cambiamento di un’intera civiltà: se la televisione, dalla sua nascita fino agli anni ’80, doveva essere maestra di morale, infondere valori, presentare una netta distinzione tra bene e male (come dimostrano i kolossal e sceneggiati un po’ naif assai in voga al tempo), a partire dalla Neotelevisione il palinsesto ha l’esigenza di ricalcare un nuovo mondo. E a una società più difficile, eterogenea, incoerente, corrispondono per forza personaggi più complessi e distanti da quelli tradizionali.
Ecco così giustificato l’interesse sempre crescente per i bad guys. Un fascino palesato per la prima volta con grandi successi di fine secolo come Dallas e Twin Peaks, per poi accentuarsi nei primi 2000 con produzioni del calibro di Lost o Dr. House: i loro personaggi, volti sfocati tra il bene e male come due facce della stessa medaglia, sono antesignani della nuova serialità e di una strutturazione inedita del racconto.

La costruzione dell’antieroe
“Comoedia est imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis”
“La commedia è imitazione della vita, specchio della consuetudine, immagine della verità”
Così scriveva Cicerone nel De Republica. Il maestro della retorica e della filosofia fornisce una spiegazione estremamente chiara del significato di commedia, con poco sforzo assimilabile alle nostre fiction. Rivolgiamo particolare attenzione al termine “specchio“: all’interno di uno specchio non si vede altro se non il proprio riflesso. Ne deriva quindi che se si assiste volentieri ad uno spettacolo è sempre, volontariamente o meno, per riconoscersi all’interno della narrazione. La vicenda, la trama, e soprattutto i personaggi, non possono essere qualcosa di totalmente estraneo e distante dallo spettatore.
E allora, come è possibile che avvenga l’immedesimazione, per l’appunto, in un rough hero?
Ecco giungere in soccorso quel concetto che Jason Mittel definisce TV complessa. Da troppo tempo ormai la produzione televisiva si stava fossilizzando sul cosiddetto personaggio piatto. Questo è un tipo di personaggio assolutamente prevedibile, e perciò rassicurante. Spesso ricalca stereotipi, non agisce mai fuori copione. C’è bisogno di una scossa, di smuovere lo spettatore dalla sua comfort zone, e a questo scopo vengono introdotti i personaggi tondi, dei quali i rough Heroes sono i perfetti rappresentanti.
Queste figure puntano quasi esclusivamente al lato emotivo e irrazionale dello spettatore, ed è così che si affeziona a loro. Sono complicati e contraddittori, stupiscono e generano attrazione per la loro personalità imprevedibile e sfaccettata. Li amiamo perchè anche noi, persone reali, siamo così. Non siamo uguali tra noi, non siamo maschere o macchiette. Siamo “i diversi” o, almeno, desideriamo esserlo.
Valentina Pisanty spiega che la specificità del rough Hero si basa su tre elementi: innanzitutto le qualità eroiche, quindi il fatto che possano incarnare dei modelli positivi grazie al loro coraggio, determinazione, ma anche anticonformismo; poi le fragilità umane: quasi tutti gli antieroi condividono dei tormenti, che vanno da un’infanzia difficile ad una salute fisica o mentale compromessa (tutte peculiarità che ci consentono di giustificare più facilmente le loro cattive azioni); e infine i vizi, dalla violenza a dipendenze di varia entità e natura.

Come mai ci affezioniamo ai rough Heroes?
Il successo dei rough Heroes è dovuto alla sapiente costruzione di questi personaggi, ma anche ad alcune dinamiche interne che si scatenano nello spettatore. L’antieroe da sempre è in grado di rappresentare e contenere alcune pulsioni estreme, e censurabili, insite nell’essere umano. È il concetto su cui si basa quasi la totalità della grande tragedia greca, quello della catarsi. In antichità venivano rappresentate nelle opere tragiche le pulsioni più oscure dell’uomo, quali tradimento, omicidio e via dicendo, così da liberare lo spettatore che, assistendovi, veniva purificato dal richiamo di quelle pulsioni.
Il concetto è simile nella serialità moderna. Vengono messe in scena sul piccolo schermo le vicende di personaggi negativi che finiscono per farlo soccombere, innescando dunque un doppio processo nello spettatore. La soddisfazione di tali pulsioni, che vengono rappresentate e destinate quindi a rimanere sullo schermo, ma anche la presa di consapevolezza di come determinati comportamenti possano essere deleteri. Anche la vicenda del più amato dei rough Hero finisce per consumarsi o tramite la sua fine, o tramite la sua redenzione. Questo perché non può esserci una giustificazione a determinate pulsioni, vanno condannate o eliminate.
La serialità moderna è stracolma di esempi in tal senso. In Italia abbiamo la vicenda narrata in “Romanzo Criminale”, dove tutti gli “eroi” della banda della Magliana finiscono per fare una triste fine. Senza redenzione, la morte è l’unica via per la condanna. E alla fine si finisce per provare un’enorme tristezza per la drammatica fine di questi personaggi, ma non si può fare a meno di giustificarla.
Dunque perché ci piacciono tanto i rough Heroes? Semplicemente perché rappresentano quelle pulsioni più oscure e distruttive che sono presenti nell’essere umano e perché mediante la loro rappresentazione, e drammatizzazione, le esorcizzano, lasciando lo spettatore placido e tranquillo davanti allo schermo, ripulito dai suoi tormenti.

Gli esempi di rough Heroes nella serialità moderna
La serialità moderna è, come sottolineato, piena di esempi di rough Heroes. Il profluvio di serie tv degli ultimi anni ha regalato anche tantissimi esempi di antieroi, che si inseriscono alla perfezione nelle canoniche categorie che descrivono le tipologie di costruzione di questi personaggi. Mediante un’accurata selezione, vediamo alcuni esempi di tipi di rough Heroes.
Lupin, l’antieroe sovversivo
Il personaggio sovversivo è colui che rifiuta le convenzioni, i modelli tradizionali, ribellandosi di fronte all’immagine stereotipata dell’eroe positivo. Esempio calzante è Lupin: Arsenio Lupin, storico protagonista del libro di Maurice Leblanc, è stato sfruttato per numerosi film e serie tv tra cui la recentissima produzione francese di Netflix.
Qui Lupin è Assane Diop, uomo sulla trentina e figlio di un immigrato del Senegal stabilitosi a Parigi. Grazie alla sua intelligenza sopraffina, Assane si cimenta nell’arte dei furti per riscattarsi da un passato difficile. La “bellezza” delle sue rapine si cela non solo nell’apprezzabile arguzia impiegata per realizzarle, ma anche nell’innegabile fascino che desta il suo essere “ladro gentiluomo“, definizione totalmente antitetica che rende Lupin un nuovo modello di eroe, ben lontano dalla perfezione dei suoi precursori, e di conseguenza assai intrigante.
Arrow, l’antieroe frustrato
L’antieroe frustrato è quel personaggio che vorrebbe a tutti i costi essere un eroe, ma per svariati motivi non riesce a esserlo. Perché gli altri non riconoscono il suo eroismo, o perché fattori contestuali non glielo permettono. Da questa smorzatura delle sue intenzione nasce appunto la frustrazione che lo caratterizza. Questo è il caso di una specifica tipologia di personaggi, molto in voga negli ultimi tempi: i vigilanti/supereroi fumettistici. L’archetipo è naturalmente Batman, protagonista di quella che è forse la più bella trilogia cinematografica tratta dal mondo dei fumetti.
Sul piccolo schermo il primo grande personaggio di questo tipo è Arrow, capostipite del fortunato Arrowverse, l’universo narrativo basato sui fumetti della DC Comics, popolato tra gli altri anche da Flash e Supergirl. Arrow, al secolo Oliver Queen, dopo cinque anni su un’isola deserta torna nella sua Starling City per ripulire la città dai criminali. Con arco e cappuccio sostiene la propria crociata, ma lo fa tramite la diffidenza generale e soprattutto l’ostilità delle forze dell’ordine. Ce ne vuole di tempo prima che Arrow veda riconosciuta la propria utilità sociale, prima che venga trattato diversamente dal resto dei fuorilegge. La frustrazione, sommata all’oscuro passato del protagonista nei cinque anni d’isolamento, plasmano il carattere tetro e tormentato dell’eroe incappucciato, incapace di accettarsi completamente ed essere accettato in quanto eroe.
Regina, l’antieroe pentito
Non c’è niente di più umanamente calamitante della figura dell’antieroe pentito. Un tipo di personaggio che incarna l’aspirazione alla redenzione tipica di ogni essere umano. Il profilo corrisponde all’eroe che diventa tale dopo aver riscattato un passato oscuro. Contano poco le motivazioni che hanno portato a tale conversione: possono essere interne, perché l’antieroe si pente e svolta il proprio comportamento in positivo, o esterne, dovute a un contesto che porta il rough Hero a incarnare valori positivi.
Nella serialità moderna spicca una figura ben radicata nella tradizione, soprattutto favolistica, occidentale: la regina cattiva. Il caso è quello di Regina, una delle protagoniste di Once Upon a Time, serie che reinterpreta in chiave moderna e riaggiornata le vicende dei personaggi delle favole. Da cattiva a eroina, il percorso di Regina rappresenta la perfetta redenzione, il compimento del cammino del tipo antieroe pentito.
Annalise Keating, l’antieroe spontaneo
“Non sarò mai un eroe, e mi va bene così”. È questo il modo in cui potrebbe parlare di sè l’antieroe spontaneo, un personaggio consapevole dei propri limiti, delle enormi contraddizioni interiori, che non ambisce a essere nulla di diverso da ciò che è. Appartenente a questa categoria è di sicuro Annalise Keating, protagonista di Le Regole Del Delitto Perfetto.
Annalise è un avvocato e insegnante di diritto, che si crea un gruppo d’élite tra i suoi studenti di giurisprudenza. Questi ragazzi restano costantemente coinvolti in crimini che verranno coperti da Annalise stessa, a costo di scapitarne. Annalise Keating è una figura estremamente contraddittoria: rappresentante della giustizia ma schierata dalla parte di criminali indifendibili; all’apparenza forte ma soggetta a svariate dipendenze; sicura di sè ma non abbastanza da mostrarsi in pubblico senza un pesante trucco e numerose parrucche. Tuttavia ne è perfettamente conscia, ed è questo a renderla così completa, così umana, come emerge in uno dei toccanti monologhi finali:
“Who I am is a 53-year-old woman from Memphis, Tennessee, named Anna Mae Harkness. I am ambitious, black, bisexual, angry, sad, strong, sensitive, scared, fierce, talented, exhausted. And I am at your mercy.”
“Cattivi” o “umani”?
Crudeli, violenti, bugiardi, traditori. Insomma, cattivi. Ma “cattivi” fino a che punto? È questa la domanda che più sorge spontanea nell’interfacciarsi ad un rough Hero, nonché il quesito che meglio consente di comprenderne l’identità. L’antieroe è una rappresentazione estrema, ma non per questo meno sincera, dei mille volti della natura umana.
E se “La commedia è immagine della verità”, risulta evidente come la complessità del personaggio sia pressoché la medesima dello spettatore. Allora non è affatto scorretto pensare che di rough Hero ce ne sono due: uno dentro lo schermo, e l’altro in carne e ossa.
Autori: Valeria Polcini e Danilo Budite