Amazon: dove la velocità rallenta i diritti dei lavoratori

Amazon: dove la velocità rallenta i diritti dei lavoratori

L’immediatezza è l’unico valore che sembra avere peso nel frenetico mondo del consumo nel quale siamo immersi. Vogliamo tutto, o quantomeno il più possibile, e lo vogliamo subito, o quantomeno il prima possibile. Per questo Amazon è sempre il nostro riferimento massimo in termine di acquisti di qualsiasi tipo. Se questo concetto poteva essere valido già un anno fa, da quando la pandemia ha stravolto tutto, l’idea di comprare si è totalmente trasferita online. Anche ora che molti esercizi sono fisicamente aperti, siamo automaticamente portati a cercare prima il nostro prodotto online. E, già che lo abbiamo trovato su Amazon, perché uscire di casa, fare la fila, ricercarlo altrove e perdere tempo? Non c’è motivo. E quindi compriamo.

Solo che da fuori non vediamo quello che c’è dietro l’enorme macchina di Amazon che riesce sempre a soddisfare i nostri bisogni in un giorno, massimo due. E capire davvero cos’è Amazon e cosa comporta l’immediatezza che richiediamo, può risultare difficile, perché si parla di un mondo che spesso neppure vediamo.
Dunque, per farsi un’idea, è bene partire da ciò che è accaduto nell’ultimo anno e ciò che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti.

Amazon: una macchina da 1,2 milioni di dipendenti

Se già prima parlando di Amazon ci riferivamo a una delle più grandi multinazionali al mondo, con il coronavirus e la conseguente impossibilità di fare la gran parte degli acquisti di persona, tutto si è ampliato esponenzialmente. Amazon è stato un punto di riferimento per chiunque avesse necessità di fare qualsivoglia tipo di acquisto nei lunghi di mesi di lockdown, rendendo questa azione meccanica e abitudinaria, anche dopo le parziali riaperture.
Tutto ciò di cui stiamo parlando è semplicemente riassumibile in poche indicative cifre che testimoniano la crescita del colosso americano.

Tra difficoltà lavorative di ogni tipo, Amazon da gennaio a ottobre dell’ultimo anno ha assunto 427.300 persone, portando così il numero di dipendenti totali a un milione e 200 mila. Un incremento di oltre il 50% se paragonato all’anno precedente. Con questi numeri Amazon si classifica in terza posizione tra le aziende che globalmente vantano più impiegati: davanti ci sono solo Walmart – con 2,2 miilioni – e China National Petroleum – 1,3 milioni. Ma se si pensa che nel 2017 l’azienda di Jeff Bezos non era nemmeno tra le prime dieci in classifica, è facile pensare che in breve tempo possa aumentare ulteriormente le proprie dimensioni.

La media spaventosa è quella di 2800 assunzioni al giorno da quando è iniziata la pandemia. Il New York Times dice che nel 2020 Amazon ha guadagnato circa 327 miliardi, equivalenti circa al Pil della Danimarca, ed ha raddoppiato il proprio valore.
Tutti questi numeri di difficile applicazione reale, data la loro natura mastodontica, sono ciò che si cela dietro agli innumerevoli acquisti che ogni giorno facciamo.

Bressemer dice “no”

Ma dietro alla macchina ci sono gli uomini. Che sono tanti, come abbiamo visto, e non se la passano neanche lontanamente bene. I dipendenti di Amazon più che come uomini vanno visti come entità sempre più robotizzate, e il motivo è presto spiegato.
“Sappiamo che i nostri autisti possono avere e hanno problemi a trovare i bagni a causa del traffico o perché percorrono strade fuorimano…”, confessa Amazon stesso, “… e questo è stato molto frequente durante la pandemia di Covid, quando molti bagni pubblici erano chiusi”. Insomma, i diritti dei lavoratori che compongono la catena di Amazon sono tutt’altro che tuetelati.

E per la lotta ai diritti dei lavoratori ci sarebbe potuta essere una svolta a Bressemer, cittadina americana che si trova in Alabama, uno degli stati storicamente più poveri. Proprio qui, lo scorso 28 marzo, si è votato per decidere se istituire un sindacato interno o meno.
L’iniziativa era stata apprezzata e appoggiata dallo stesso presidente Joe Biden, ma è stato Mark Pocan, membro democratico della Camera, a dare molto risalto alla questione, scrivendo “Pagare i lavoratori 15 dollari l’ora non fa di Amazon un posto di lavoro all’avanguardia, quando i lavoratori devono urinare nelle bottiglie di plastica“.

Solo che ha vinto il “no”. Su 3.041 votanti totali, 1,798 hanno bocciato la nascita del sindacato: solo 738 sono state le preferenze a favore, mentre le restanti schede sono state contestate in gran parte da Amazon. Ciononostante, è oramai svanita la possibilità di nascita del primo sindacato interno negli Stati Uniti di Amazon.

Ma perché negli Stati Uniti i sindacati hanno poca rilevanza? Perché solo il 10% dei lavoratori in tutti gli Stati Uniti sono iscritti a un sindacato?
Le ragioni sono molteplici e profondamente complesse, come tipico di una società così pluralistica e multietnica. Dagli anni ’70 del secolo scorso c’è stato un calo del 45% delle associazioni sindacali, e gli scioperi sono diminuiti del 95%. Una delle ragioni è certamente la politica di Reagan, continuata poi da Bush, che ha separato sempre più le strade di Stato e sindacati.

Un’altra ragione è che spesso le aziende scoraggiano i dipendenti ad iscriversi ai sindacati.

 

Dietro al “no”

Quella che può sembrare una scelta totalmente irrazionale e insensata, è in realtà un insieme di realtà più complicate. Dietro al “no” dei lavoratori di Bressemer c’è ad esempio la paga percepita ad Amazon: i 15 dollari ogni ora sono più del doppio del minimo salariale stabilito dall’Alabama. Quelle zone sono molto povere, solo parzialmente riabilitate dalla costruzione di grandi industrie e dalla presenza della stessa Amazon, che offre una possibilità di migliorare lo stile di vita a livello economico.

E poi ci sono gli impedimenti attivi di Amazon per dissuadere i propri dipendenti a votare per l’istituzione di un sindacato. All’interno delle fabbriche – negli Usa se ne contano circa 800 – Amazon tappezza bagni e aree comuni con manifesti colmi di informazioni false sui sindacati. Si va da notizie fasulle riguardanti cifre ingenti da pagare ai sindacati, sino alla loro condanna perché danneggiano il dinamismo e il clima interno all’azienda. È stato creato anche un sito, “Doltwithoutdues.com”, che sosteneva il “no” e spingeva i lavoratori a non istituire un sindacato.

“C’erano volantini dentro e fuori dai bagni, dentro e fuori dallo stabilimento, dicevano “vota presto, vota no”. Nelle stanze comuni, sui tavoli, “dieci motivi per cui non vogliamo un sindacato”. C’erano dirigenti di altri stabilimenti che spiegavano ai dipendenti perché non c’era bisogno di un sindacato. Lo facevano per spaventarci.”

Questa la testimonianza di un lavoratore.

Ma questa è solo la strategia più superficiale e “innocua“. Poi ci sono le maniere forti. Le tattiche intimidatorie, le penalizzazioni e i licenziamenti sono le conseguenze per le richieste dei diritti. Per questo il “no” dei lavoratori di Bressemer era molto prevedibile e, in fin dei conti, comprensibile.
Si preferisce un sacrificio di dignità e salute per avere una stabilità lavorativa. Ma ciò che accade negli Usa non è limitato a quei territori. Anche in Europa trattamenti di questo tipo sono all’ordine del giorno.

 

“Work hard, have fun, make history”

In Europa ed in Italia, invece, la presenza dei sindacati è nettamente più diffusa, ma spesso i numeri degli iscritti sono irrisori, e così la difesa dei diritti diventa complicata di fronte alla grandezza della burocrazia di Amazon.

“Work hard, have fun, make history” è il motto scritto sui muri di molte fabbriche in Italia. Solo che tutto potrebbe arrestarsi al “Work hard”. Tutto il resto è pura propaganda. Le assunzioni dipendono esclusivamente dalla produttività del singolo lavoratore. 8 ore di turno intervallate solo da mezz’ora di pausa, che spesso viene quasi saltata perché non si può rientrare alla propria postazione neppure con un minuto di ritardo. “Lì dentro è sempre giorno” è l’inquietante testimonianza di una lavoratrice, che riassume tutto. Il ritmo produttivo infernale non viene arrestato per nessuna ragione.

La “job rotation” che viene promessa, ovvero il cambio di mansioni svolte nel tempo per rendere più “formativo” e universale il lavoro dei dipendenti, in realtà non esiste. Anzi, quando per problemi di natura fisica i lavoratori richiedono di essere spostati in altri reparti, la risposta che ricevono è: “non facciamo favoritismi”.
Una catena produttiva che ricorda quella di Charlie Chaplin in “Tempi moderni” del 1936.
Il lavoratore è solo un infinitesimale ingranaggio e questa necessità di produttività incessante produce una “competizione perversa” tra i precari. La volontà di avere un lavoro porta i dipendenti a rinunciare ad andare in bagno per l’intera durata del turno. Un’assenza dal proprio posto di produzione, anche se limitata all’espletamento di bisogni fisici, è una perdita di tempo che pregiudica il lavoro.  “Ogni minuto di ritardo viene detratto dalla busta paga”, dice un lavoratore.

Un dipendente racconta di trattare ogni giorno tra i 18 e i 24 mila pacchi, il tutto eseguendo lavori meccanici che portano a infortuni ricorrenti. Ma il cronometro che scandisce le loro performance lavorative scorre e quindi non ci si può fermare.

Di storie di soprusi come quella di una lavoratrice costretta a giustificare la propria assenza dalla postazione per due volte mostrando l’assorbente ce ne sono tante, troppe.
E l’amara considerazione è che tutto ciò che conta per Amazon è il “lavoro duro”, dove l’umanità sparisce, la storia non viene scritta e il divertimento è un’utopia.
Dietro all’immediatezza di Amazon c’è questo.
E anche se non cambierà le nostre abitudini con effetto immediato, forse produrrà una nuova consapevolezza.

Pubblicato da Federico Roberti

Da sempre guardo il mondo con gli occhi di chi ne è avidamente curioso. Da sempre provo a trasformare la mia curiosità in parole e in articoli. Da poco, pochissimo, sono il direttore di Zeta. Cosa vuol dire questo? Solo che mi guarderò di più intorno e le mie parole avranno un peso maggiore.

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